AIDC - Sezione di Milano

Integrazione denuncia n. 12
Commissione per l'esame della compatibilità di leggi e prassi tributarie italiane con il diritto dell'unione europea


COMMISSIONE PER L’ESAME DELLA COMPATIBILITA’ DI LEGGI E PRASSI TRIBUTARIE ITALIANE CON IL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

 

Componenti

Presidente

Esperti

 

Savorana Dott. Alessandro

 

Antonini Dott. Gianfranco

 

Bozzi Avv. Aldo

Centore Prof. Avv. Paolo

 

Capelli Prof. Avv. Fausto

Holzmiller Dott. Giuseppe

(Delegato ai rapporti esterni)

 

Falsitta Prof. Avv. Gaspare

Piazza Prof. Dott. Marco

 

Marzorati Dott. Guido

Poggi Longostrevi Dott. Stefano

 

Rizzardi Dott. Raffaele

(Segretario e delegato alla divulgazione)

   

Santacroce Prof. Avv. Benedetto

   

Vismara Prof. Avv.  Fabrizio

   

Cimaz Dott. Oliviero

   
 

Ginevra Dott. Edoardo

 
 

Presidente AIDC Milano

 

INTEGRAZIONE  DENUNCIA n. 12 - FISCALITA’ DIRETTA del 16 marzo 2016
CHAP (2016) 01234
ILLEGITTIMITA’ COMUNITARIA DEL REGIME FISCALE SULLE
CONTROLLED FOREIGN COMPANIES (“CFC rules”) come previsto dall’art. 167 D.P.R. n.917/1986

26 Settembre 2018

a cura di:
Alessandro Savorana – relatore ed estensore
Marco Piazza - correlatore

Sommario

  1. Introduzione.

  2. Schema di Decreto Legislativo per il recepimento della Direttiva (UE) 2016/1164 del Consiglio del 12 luglio 2016.  

  3. Permanenza dei motivi di conflitto della norma interna.

  4. Ulteriori elementi di criticità:

    1. L’interpello

    2. L’inclusione nella base imponibile dei redditi provenienti da CFC

    3. Il trattamento delle plusvalenze

  5. Conclusioni.

1. Introduzione
Il 16 marzo del 2016 la scrivente Commissione aveva inviato una denuncia, protocollata in data 7 aprile 2016 al
RG/jr CHAP (2016) 1234, in ordine alla normativa italiana in materia di CFC rules di cui all’art. 167 del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 “Testo Unico delle imposte sui redditi”.
La disciplina sulle c.d. Controlled foreign companies (CFC) è stata introdotta nell’ordinamento nazionale con il Decreto legislativo del 12/12/2003 n. 344, quale strumento di contrasto del tax deferral e di protezione delle basi imponibili nazionali. Il D.L. 1° luglio 2009 n. 78, convertito in Legge 3 agosto 2009 n.102, con decorrenza dal 1° gennaio 2010, ne ha esteso l’applicabilità anche alle imprese, società ed enti, localizzate in Paesi a fiscalità ordinaria, compresi, dunque, gli Stati membri dell’Unione Europea.

Come ampiamente illustrato nella segnalazione originaria, la norma interna si pone in netto contrasto con il principio di proporzionalità con conseguente lesione della libertà di stabilimento sancita dal Trattato, nonché con l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea.

Tale situazione permane anche dopo la pubblicazione dello Schema del Decreto Legislativo di Attuazione della Direttiva 2016/1164/UE del 12 luglio 2016 del Consiglio recante norme contro le pratiche di elusione fiscale (ATAD) , discusso in sede di esame preliminare dal Consiglio dei Ministri l’8 agosto 2018, e reso disponibile sul sito istituzionale (http://www.governo.it/provvedimento/provvedimento-a33004008081813/9822) verso la fine dello stesso mese.

Ferme restando le motivazioni già precisare dalla scrivente Commissione nella denuncia del 16 marzo 2016, la presente integrazione intende evidenziare come, alla luce del testo non definitivo diramato dal Governo, non siano stati del tutto rimossi i profili di illegittimità comunitaria in merito alla disciplina CFC applicabile a società residenti o localizzati in Stati appartenenti all'Unione europea ovvero a quelli aderenti allo Spazio economico europeo.  Anzi, ad essi si è aggiunto un ulteriore profilo in relazione al sistema d’inclusione della base imponibile dei redditi da passive income.

2) Schema di Decreto Legislativo per il recepimento della Direttiva (UE) 2016/1164 del Consiglio del 12 luglio 2016L’art. 4 del precitato Schema di Decreto Legislativo di attuazione (Allegato 1), contiene una riscrittura dell’art. 167 del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 “Testo Unico delle imposte sui redditi” (in seguito T.U.I.R.), che viene conseguentemente interamente modificato.
La disciplina verrebbe applicata nei confronti di società controllate direttamente o indirettamente, ovvero laddove soggetto abbia il diritto di ricevere oltre il 50 per cento degli utili, e indipendentemente dalla residenza in Stati UE/SEE o extra-UE delle legal entity, se sono integrate – congiuntamente – le seguenti condizioni (4° comma art.4):

a) sono assoggettati a tassazione effettiva inferiore alla metà di quella a cui sarebbero stati soggetti qualora residenti in Italia. Con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate sono indicati i criteri per effettuare, con modalità semplificate, la verifica della presente condizione, tra i quali quello dell’irrilevanza delle variazioni non permanenti della base imponibile;
 

b) oltre un terzo dei proventi da essi realizzati rientra in una o più delle seguenti categorie:

1) interessi o qualsiasi altro reddito generato da attivi finanziari;
2) canoni o qualsiasi altro reddito generato da proprietà intellettuale;
3) dividendi e redditi derivanti dalla cessione di partecipazioni;
4) redditi da leasing finanziario;
5) redditi da attività assicurativa, bancaria e altre attività finanziarie;
6) redditi da operazioni di cessione di beni o prestazione di servizi a valore economico aggiunto scarso o nullo con soggetti che, direttamente o indirettamente, controllano il soggetto controllato non residente, ne sono controllati o sono controllati dallo stesso soggetto che controlla il soggetto non residente.

La predetta disciplina torna applicabile anche:
a) alle stabili organizzazioni all’estero delle controllate;
b) alle stabili organizzazioni all’estero di soggetti residenti che abbiano optato per il regime di cui all’articolo 168-ter T.U.I.R. (regime di Branch Exemption).

Il comma 5 dell’art.4 prevede che “Le disposizioni non si applicano se il soggetto (residente controllante) dimostra che il soggetto controllato non residente svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali. ……il contribuente può interpellare l’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’articolo 11, comma 1, lettera b), della legge 27 luglio 2000, n. 212.”

In ordine alla dimostrazione, il comma 11 dell’art.4, dispone che: “L’Agenzia delle Entrate, prima di procedere all’emissione dell’avviso di accertamento d’imposta o di maggiore imposta, deve notificare all’interessato un apposito avviso con il quale viene concessa al medesimo la possibilità di fornire, nel termine di novanta giorni, le prove per la disapplicazione delle disposizioni del presente articolo in base al comma 5. Qualora l’Agenzia delle Entrate non ritenga idonee le prove addotte dovrà darne specifica motivazione nell’avviso di accertamento. Fatti salvi i casi in cui la disciplina del presente articolo sia stata applicata oppure non lo sia stata per effetto dell’ottenimento di una risposta favorevole all’interpello di cui al comma 5, il soggetto di cui al comma 1 deve segnalare nella dichiarazione dei redditi la detenzione di partecipazioni in soggetti controllati non residenti di cui ai commi 2 e 3, al ricorrere delle condizioni di cui al comma 4, lettere a) e b).”,  testo sostanzialmente identico all’attuale comma 8-quater dell’art. 167 T.U.I.R.

Rispetto al vigente art. 167 T.U.I.R, il testo novellato non riporta più la distinzione tra società comunitarie o in Stati contraenti l’accordo SEE e extra comunitarie, ove le prime (ex comma 8-bis) erano da considerarsi destinatarie della disciplina CFC solo laddove avessero conseguito proventi derivanti per più del 50% dalla gestione di passive income e, congiuntamente, assoggettati a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella a cui sarebbero stati soggetti ove residenti in Italia.

Scompare, solo apparentemente (ma non sostanzialmente), anche la presunzione di cui al comma 8-ter, che impone al soggetto residente di dimostrare che l'insediamento all'estero non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale.

In realtà, come si illustrerà in seguito, il combinato disposto dei commi 5 e 11 mantengono l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale dovrà dimostrare che il soggetto controllato non residente svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali, e se le prove addotte non saranno ritenute idonee dall’amministrazione finanziaria, tornerà applicabile la disciplina CFC.   

3) Permanenza dei motivi di conflitto della norma interna
Richiamando integralmente i motivi e le considerazioni espresse nella denuncia del 16 marzo 2016, intendiamo porre all’attenzione di codesta Commissione le osservazioni che seguono.

La nuova normativa che si va delineando, strutturalmente si risolve in una presunzione legale predeterminata di evasione/elusione fiscale di portata generale che impone al contribuente l’inversione dell’onere della prova, a prescindere da un'effettiva evasione o frode fiscale, che lascia ampia discrezionalità di giudizio dell’autorità amministrativa e, quindi, senza che l’amministrazione finanziaria sia tenuta a fornire il benché minimo principio di prova di frode e di abuso.

E’ chiaro dal testo normativo che la prova dovrà essere fornita limitatemene al fatto “che il soggetto controllato non residente svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali.” Se l’impresa non sarà ritenuta sufficientemente strutturata a giudizio dell’amministrazione finanziaria, tornerà applicabile la disciplina CFC.  

Innanzitutto, evidenziamo che la Direttiva (UE) 2016/1164 non introduce uno specifico obbligo di dimostrazione posto solo in capo al contribuente per la disapplicazione della condizione di cui alla lettera a) dell’articolo 7, tanto che al 2° paragrafo, secondo alinea, del medesimo articolo, sancisce che : “ La presente lettera non si applica se la società controllata estera svolge un'attività economica sostanziale sostenuta da personale, attrezzature, attivi e locali, come evidenziato da circostante e fatti pertinenti.”

Tale assunto è confermato dal 2° paragrafo del 12° considerando, ove il legislatore comunitario si sofferma sull’importanza “…………. che le amministrazioni fiscali e i contribuenti cooperino per raccogliere le circostanze e i fatti pertinenti al fine di determinare se la norma di esclusione va applicata.”. Non è dunque prevista una situazione che imponga una valutazione delle sole prove addotte dal contribuente.

La Direttiva va dunque nella direzione dei precetti già statuti dalla Corte di Giustizia che sanzionano norme di mera presunzione, nonché il principio che spetta alle amministrazioni fiscali provare la natura elusiva da motivare al contribuente, previo lo svolgimento di accurate indagini; il contribuente avrà comunque la possibilità di dimostrare che la struttura estera non ha per scopo principale quello di sottrarsi all’imposizione o di approfittare delle lacune normative per conseguire un vantaggio fiscale.

Diverso, come visto sopra il tenore del 5° comma dell’articolo 4 nel testo del D.Lgs. in corso di emanazione, ove è previsto che: “Le disposizioni ………non si applicano se il soggetto (residente controllante) dimostra che il soggetto controllato non residente svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali.”

Onere probatorio posto, quindi, solo in capo al contribuente come confermato dal successivo 11° comma ove sono oggetto di sindacato d’idoneità le prove addotte dal soggetto controllante residente.

Questa impostazione contrasta con un costante orientamento della Corte di Giustizia delle Comunità Europee. Oltre alle sentenze già citate nella prima denuncia, occorre aggiungere la pronunzia sul caso Eqiom SAS del 7 settembre 2017, causa C-6/16, nonché, da ultima l’Ordinanza della Corte del 14 giugno 2018 (Causa C-440/17) sul caso GS oltre alla linea interpretativa contenuta nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Juliane Kokott nei seguenti pending case: C-115/16, C-116/16, C 117/16, C-118/16 e C-119/16.

Come tracciato nel caso Equiom SA, l’incompatibilità con l’ordinamento comunitario di una norma domestica si verifica allorché sistematicamente s’impone al soggetto passivo l’onere di provare l’esistenza di motivi non fiscali, senza che l’amministrazione sia tenuta a fornire sufficienti indizi di elusione fiscale, poiché si fonda su una presunzione generale di elusione fiscale.

L’art. 167 del T.U.I.R., fin dalla sua introduzione , ha finalità di norma antielusione, volta (giustamente) a contrastare pratiche di pianificazione fiscale in virtù delle quali ingenti utili siano trasferiti o allocati a società controllate residenti fiscalmente in Stati a tassazione nulla o ridotta. Società controllate la cui struttura operativa è pressoché insistente o comunque non riconoscibile da parte dei terzi. Si tratta in sostanza di costruzioni giuridiche prive di sostanza economica, volte ad aggirare l’obbligo fiscale, con fine di essenziale di conseguire un (indebito) vantaggio fiscale.

Non a caso il novellato art. 167 T.U.I.R. fa riferimento ai fini dell’esclusione dall’applicazione della disciplina, come indicato nella Direttiva 2016/1164, all’esercizio di un’attività economica sostanziale sostenuta da attrezzature, personale, attivi e locali e per una durata di tempo indeterminata, negandola alle costruzioni meramente artificiose.

Il punto però non è nel merito della misura antielusione ma, come più volte sostenuto dalla scrivente Commissione, nella sua materiale applicazione tecnico-procedurale.

Nel caso Eqiom SA è emerso in modo netto che una norma domestica che sistematicamente impone al soggetto passivo l’onere di provare l’esistenza di motivi non fiscali, senza che l’amministrazione sia tenuta a fornire sufficienti indizi di elusione fiscale, si fonda su una presunzione generale di realizzazione di un abuso, ed eccede quanto necessario a evitare le elusioni fiscali (violazione del principio di proporzionalità). Ciò che contrasta, in sostanza, è l’automatismo di disposizioni presuntive, aventi portata generale, o se si preferisce l’equazione: presunzione (salvo prova contraria) = evasione/elusione.

In tal guisa la nuova normativa (in linea con il testo vigente), eccede quanto necessario a combattere le elusioni fiscali atteso che, in definitiva, impone ai contribuenti l’onere della prova dell’inesistenza dell’elusione.

Stante il costante orientamento interpretativo della Corte di Giustizia, spetta dunque all’amministrazione finanziaria dimostrare, in base a elementi e circostanze probanti, che il fine essenziale è quello di eludere l’obbligo tributario per conseguire un vantaggio fiscale;  il contribuente potrà superare l’eccezione e dimostrando l’esistenza di motivi diversi da quelli meramente fiscali a giustificazione della scelta fatta, fermo restando che la struttura utilizzata può avere anche una spiegazione diversa dal semplice conseguimento del vantaggio fiscale.

Quanto sopra è stato avvalorato dalla Corte di Giustizia nel recente caso GS (C-440/17), che impone allo Stato di considerare nel suo complesso la situazione e motivare al contribuente il fumus boni iuris o prove della possibile elusione (punto 45)

Peraltro, l’inversione dell’onere della prova è precetto sproporzionato alla luce della positiva intensificazione nello scambio transfrontaliero d’informazioni tra Stati che consente alle autorità fiscali di acquisire maggiori e più puntuali dati e notizie al fine di contrastare pratiche di elusione/evasione. La Direttiva 2011/16/UE, recentemente modificata dalla Direttiva 2018/822 del 25 maggio 2018, prevede, oltre ai i principi e criteri direttivi, ampie fattispecie per cui vige l’impegno dello scambio d’informazioni fra Stati membri, consentendo alle loro amministrazioni fiscali di disporre elementi utili per contestare l’aggiramento degli obblighi fiscali.

Per soddisfare dunque le esigenze di certezza del diritto ed essere compatibile con il diritto comunitario, oltre a consentire da un lato un’armonizzazione procedurale dell’azione degli uffici periferici, e da altro lato un’armonizzazione interpretativa da parte delle corti di merito e di legittimità, la norma in corso di esame preliminare andrebbe modificata come segue:  

  1. al comma 5°, primo periodo, riportare il testo della direttiva nella seguente formulazione:

“Le disposizioni del presente articolo non si applicano se il soggetto controllato non residente svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali.”;

  1. sostituire integralmente il comma 11 con il seguente:

Ai fini dell’accertamento si applica il 6° comma dell’art. 10-bis della Legge 27 luglio 2000 n. 212.  Fatti salvi i casi in cui la disciplina del presente articolo sia stata applicata oppure non lo sia stata per effetto dell’ottenimento di una risposta favorevole all’interpello di cui al comma 5, il soggetto di cui al comma 1 deve segnalare nella dichiarazione dei redditi la detenzione di partecipazioni in soggetti controllati non residenti di cui ai commi 2 e 3, al ricorrere delle condizioni di cui al comma 4, lettere a) e b)”.

Quanto a quest’ultima indicata modifica, occorre precisare che nell’ ordinamento italiano esiste una disposizione in linea con i precetti enunciati dalla Corte di Giustizia. Si tratta del 6° comma dell’art. 10-bis della Legge della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente), il quale dispone che: “Senza pregiudizio dell'ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti per i singoli tributi, l'abuso del diritto è accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni, in cui sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto”.

Da notare che la disposizione in esame è la trasposizione puntuale dell’abrogato art. 37-bis, 4° comma, del D.p.r. n. 600/73 e non si limita a trattare casi di “abuso” come si evince dal titolo dell’articolo: “Disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale”.

La ratio della nostra proposta è quella di correggere l’asimmetria tra la disposizione di garanzia sopra enunciata, conforme e rispettosa del diritto comunitario (indagine preventiva dell’AF, notifica dei motivi, apertura di un contraddittorio che impone la collaborazione attiva del contribuente), e la disposizione del comma 11 dell’art.167 TUIR nella versione dello schema del decreto legislativo ( e attualmente vigente), norma, nel suo insieme, di portata generale e tipicamente di natura antielusione. In sostanza se si mantenesse l’impostazione del comma 11, coesisterebbero due precetti tra loro disallineati: per i casi di “abuso” più garantista, per i casi di “elusione” l’inversione della prova a carico del contribuente, malgrado, come evidenziato, il titolo dell’articolo.   

Peraltro, nella Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo (allegato 2), si legge che: “Con il presente decreto legislativo ………si dispongono le norme di attuazione volte a recepire tale direttiva, rilevando, sin da subito, che l’adozione delle stesse è effettuata nella considerazione che l’ordinamento tributario italiano già dispone di norme nei settori specifici indicati dalla direttiva ATAD 1, ad esclusione di quelle volte a contrastare i disallineamenti da ibridi. Proprio in tale considerazione si è ritenuto di non disporre in merito alla norma generale antiabuso in quanto l’attuale formulazione dell’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente) recante la disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale appare conforme al testo dell’articolo 6 della direttiva ATAD I. Ciò trova conferma nella circostanza che le disposizioni della direttiva sono identiche a quella della direttiva Madre-figlia n. 2015/121/UE del 27 gennaio 2015, attuata, ai sensi del comma 5 dell’art. 27-bis del DPR n. 600 del 1973, proprio con l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente.”

Se così è, perché il legislatore italiano rifiuta di rinviare, ai fini dell’accertamento, al 6° comma dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000?

Per vero, a nostro avviso, potrebbe essere conforme anche un’articolazione normativa che mantiene al 5° comma invariato il testo in esame , purché sia modificato l’11 comma nel senso sopra indicato, cioè richiamando l’applicazione del comma 6 dell’art. 10-bis della Legge 27 luglio 2000 n. 212. In questo modo, resterebbe fermo l’onere per l’amministrazione fiscale di inviare una richiesta di chiarimenti da fornire in cui saranno indicati i motivi per i quali si ritiene applicabile il regime CFC, richiesta alla quale il contribuente sarà tenuto a cooperare fornendo le ragioni e tutti i documenti utili per determinare se torni o meno applicabile la disciplina.

A nostro giudizio, per come è impostata, la CFC rule lo Stato italiano continua a non conformarsi al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento europeo, né alle linee prevalenti della giurisprudenza, ovvero della pendenza di giudizi innanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, nonostante quanto affermato dal Governo nel documento analisi tecnico - normativa - A.T.N. Parte II- (allegato 3).  


4. Ulteriori elementi di criticità.

a) L’interpello
Anche la versione attualmente in corso di esame, prevede la possibilità che il controllante residente di interpellare l’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’articolo 11, comma 1, lettera b), della legge 27 luglio 2000, n. 212, ma non risolve il problema di fondo che avevamo indicato nella nostra denuncia.

Con il D.Lgs. n.156 del 22 settembre 2015 il legislatore ha riformato la normativa in materia di interpello (prevista dall’art. 11 della Legge 11 della legge 27 luglio 2000, n.  212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente), a partire dal 1° gennaio 2016, che ora prevede 4 tipologie di istanze. L’interpello probatorio è regolato dalla lettera b) del comma 1 dell’art. 11 del citato decreto, il quale autorizza il contribuente a richiedere all'Amministrazione risposte in merito alla sussistenza delle condizioni e la valutazione della idoneità degli elementi probatori richiesti dalla legge per l'adozione di specifici regimi fiscali. Attraverso l’interpello probatorio l’amministrazione finanziaria anticipa la fase accertativa ad un momento precedente rispetto all’esclusione dal precetto impositivo richiesto dal contribuente. Poiché le norme sulle CFC UE sono direttamente applicabili, il contribuente con l’interpello probatorio chiede di fatto la disapplicazione del presupposto impositivo, solo che gli è precluso impugnare la risposta negativa dell’amministrazione finanziaria.

Quindi, nel caso in cui l’amministrazione finanziaria ritenga non convincenti le prove addotte dal contribuente in sede di interpello, quest’ultimo non potrà impugnare la risposta negativa in quanto contro gli interpelli “probatori” l’ordinamento non ammette l’instaurarsi di un contenzioso tributario volto ad acclarare le ragioni del contribuente. L’art. 6 1° comma del D.Lgs. 24 settembre 2015 n. 156, dispone espressamente che le risposte negative fornite dall’Amministrazione finanziaria alle istanze di interpello “probatorio” ex art. 11 co. 1 lett. b) della L. 212/2000 non sono impugnabili.

Questa negata procedura di sindacato giurisdizionale dell’interpello, oltre ad essere lesiva del diritto a un ricorso effettivo ex art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione, espone quest’ultimo a onere finanziario anticipato connesso alla liquidazione dell’imposta anche se non dovuta. Infatti, se il contribuente non si adegua alla risposta negativa dell’amministrazione finanziaria, dovrà subire l’accertamento e, conseguente ad esso, l’ingiunzione del pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni.

Occorre aggiungere che interpelli come quello connesso alle norme CFC analizzano e qualificano casi concreti, dando luogo a un’attività di accertamento preventivo da parte dell’amministrazione finanziaria, per cui negare il ricorso a giudice terzo espone il contribuente al dubbio fra scegliere un’obbligata imposizione anticipata, al fine di evitare un sicuro accertamento e l’addebito delle sanzioni, oppure resistere demandando la controversia in successiva sede contenziosa.    

L’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che riprende il contenuto dell’art. 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, prevede il diritto ad un ricorso effettivo. A tale diritto, per costante giurisprudenza, corrisponde a carico degli Stati l’obbligo di rendere possibile agli interessati l’accesso ad un mezzo di ricorso che sia effettivo non solo sul piano pratico, ma anche su quello giuridico.

Il diritto ad un ricorso effettivo deve pertanto essere garantito, sulla base della Carta dei diritti fondamentali, ogniqualvolta l’atto emesso dalla pubblica amministrazione sia idoneo a produrre effetti lesivi della sfera giuridica del destinatario, il che si configura, per necessaria aderenza alla ratio dell’art. 47, non solo laddove l’atto della pubblica amministrazione rechi prescrizioni di immediata applicazione, ma anche nel caso in cui il contenuto dell’atto sia così univoco da configurare il successivo e conseguente atto di accertamento come necessitato. Tale vincolo di consequenzialità e necessità risulta indubbiamente sussistente nei rapporti tra risposta negativa all’interpello probatorio ed avviso di accertamento emesso dalla pubblica amministrazione per effetto del mancato adeguamento da parte del contribuente alla risposta negativa.

Si risolleva, pertanto, la questione all’attenzione e valutazione di codesta Commissione.

b) L’inclusione nella base imponibile dei redditi provenienti da CFC
Dallo schema del D.Lgs. in corso di esame, si evince che il legislatore italiano intende optare per l’inclusione dei redditi secondo quanto disposto dall’7, secondo paragrafo, lettera a) della Direttiva 2016/1164. Il testo all’esame preliminare così recita:
“4. La disciplina del presente articolo si applica se i soggetti controllati non residenti integrano congiuntamente le seguenti condizioni:

a) sono assoggettati a tassazione effettiva inferiore alla metà di quella a cui sarebbero stati soggetti qualora residenti in Italia…………
b) oltre un terzo dei
proventi da essi realizzati rientra in una o più delle seguenti categorie:
1) interessi o qualsiasi altro reddito generato da attivi finanziari;
2) canoni o qualsiasi altro reddito generato da proprietà intellettuale;
3) dividendi e redditi derivanti dalla cessione di partecipazioni;
4) redditi da leasing finanziario;
5) redditi da attività assicurativa, bancaria e altre attività finanziarie;
6) redditi da operazioni di cessione di beni o prestazione di servizi a valore economico aggiunto scarso o nullo con soggetti che, direttamente o indirettamente, controllano il soggetto controllato non residente, ne sono controllati o sono controllati dallo stesso soggetto che controlla il soggetto non residente.

La scelta è motivata dal Governo nella relazione illustrativa: “Al fine di contemperare le esigenze di semplificazione delle modalità di applicazione della disciplina CFC con la necessità di conservare la coerenza dell’ordinamento tributario interno preesistente, si è deciso di adottare un approccio che prevede l’imputazione al soggetto residente di tutti i redditi del soggetto controllato non residente localizzato in un Paese a fiscalità privilegiata, qualora quest’ultimo realizzi proventi per oltre un terzo derivanti da passive income.”

La norma appare non solo confusa, ma soprattutto non in linea con il dettato della Direttiva, poiché in realtà, la disposizione domestica non fa riferimento al “reddito” (income) come dovrebbe, ma ai “proventi” (cioè ai ricavi lordi), pari a oltre un terzo di quelli (complessivi) realizzati.

La Direttiva 2016/1164 (art. 7, para 2, lett. a), parla espressamente di “redditi non distribuiti dell’entità o i redditi della stabile organizzazione” e consente allo Stato membro (para 3 del medesimo art.7) “di non trattare un'entità o una stabile organizzazione come una società controllata estera se non oltre un terzo dei redditi ottenuti dall'entità o dalla stabile organizzazione rientra nelle categorie di cui al paragrafo 2, lettera a).”

La differenza non è senza conseguenze di pratica applicazione.

Ora il “reddito” deriva dalla differenza tra costi e ricavi, mentre i ricavi/proventi (revenues) sono l'utilità economica che un'impresa crea attraverso l'attuazione del processo economico imperniato sulla vendita di un quantitativo di beni e servizi.

La versione inglese della Direttiva (ma anche quella francese), appaiono rispondere meglio alle intenzioni del legislatore comunitario. In sostanza, interpretando correttamente la Direttiva, quando il reddito (prima delle imposte) deriva da oltre un terzo da passive income, la controllata estera, al ricorrere di tutte le condizioni, è soggetta alla CFC rule: diversamente no. Questo consente di circoscrivere (e colpire) con maggiore efficacia comportamenti volti all’allocazione di specifici profitti in Stati a fiscalità privilegiata

L’attuazione non appare, quindi, conforme per le seguenti ragioni.

  1. Innanzitutto, la Direttiva limita, al paragrafo 2, lettera a) dell’art.7, l’inclusione nella base imponibile dei soli redditi (non distribuiti) derivanti da passive income specificatamente individuati e non di tutti i redditi. L’inclusione della totalità dei redditi è, infatti, prevista solo ove lo Stato opti per la fattispecie indicata alla lettera b) dello stesso articolo art.7, cioè per i “redditi non distribuiti di un'entità o di una stabile organizzazione derivanti da costruzioni non genuine che sono state poste in essere essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale”.

  2. In secondo luogo, il calcolo ai fini del test CFC è dato da un confronto tra l’ammontare dei redditi ritratti da passive income e l’ammontare di tutti gli altri redditi della controllata non residente: la Direttiva non si riferisce ai proventi/ricavi. Solo quando i redditi da passive income sono superiori di oltre un terzo rispetto ai redditi totali, si verifica la condizione.

Quanto sopra è tanto più aderente al dettato della Direttiva, in base al seguente esempio. Si ipotizzi una controllata estera che a fine anno abbia conseguito revenue per € 1.000, di cui € 400 provenienti da operazioni indicate dal punto i) al punto vi) della lettera a) dell’art.7. Ora se il reddito (income) ante imposte di € 200 è costituito per il 75% da redditi “diversi” dai passive income, la condizione di cui all’art. 7, paragrafo 2, lett. a) non si avvera. Naturalmente, la CFC rule potrà tornare applicabile qualora, viceversa, il reddito di € 200 anti imposte sia costituito per oltre un terzo da passive income (cioè, ad esempio, € 68 su € 200), ma solo questa quota del reddito (es. € 68) dovrà essere inclusa nell’imponibile (e, beninteso, se la legal entity non svolga un’attività economica effettiva).  

Sicuramente l’applicazione della norma è più complessa, ma conforme al dettato della Direttiva.

La semplificazione del Governo italiano e, in realtà, improntata, più che a semplificare ad assicurare un maggior reddito alle casse dello Stato. Prima della Direttiva 2016/1164 ogni Stato poteva adottare liberamente proprie regole di contrasto alle CFC. Oggi, invece, esiste un testo comunitario codificato e armonizzato e non sono possibili attuazioni tecniche difformi nemmeno in forza dell’art. 3 della 2016/1164.

Se lo Stato italiano intende optare per l’inclusione complessiva dei redditi della controllata non residente, allora dovrà adottare la disposizione di cui alla lettera b), para 2, dell’art.7.
Se venisse adottato il testo in esame, a nostro giudizio la trasposizione non sarebbe conforme.

C) Il trattamento delle plusvalenze
L’articolo 8 della Direttiva 2016/1164, al paragrafo 6, prevede che se “il contribuente cede la sua partecipazione nell'entità o le attività svolte dalla stabile organizzazione, e una qualsiasi parte dei proventi derivante dalla cessione è stata precedentemente inclusa nella base imponibile a norma dell'articolo 7, tale importo è dedotto dalla base imponibile in sede di calcolo dell'importo dell'imposta dovuta su tali proventi, al fine di evitare una doppia imposizione.”

Si segnala che nel testo attualmente all’esame preliminare tale previsione non è prevista e non può essere superata da una prassi amministrativa. Una disposizione con analoghi effetti è contenuta nell’articolo 3, comma 5 del Dm. 429 del 2001 che fornisce disposizioni attuative dell’attuale disciplina della CFC.  La norma dovrebbe, pertanto, trovare opportuna codifica nel testo di attuazione della legge.

5. Conclusioni
La presente integrazione ha come precipuo scopo quello di segnalare a codesta Commissione che in sede di recepimento della Direttiva ATAD, lo Stato italiano non solo non ha rimosso le questioni di illegittimità comunitaria già sollevate, ma a queste si è aggiunta quella indicate al paragrafo 4, sub b).
Si comunica, peraltro, che il Parlamento ha tempo fino al 9 ottobre c.a. per esaminare ed esprimersi sull’atto governativo di recepimento della direttiva Ue 2016/1164 (direttiva Atad 1, Anti Tax Avoidance Directive)

La scrivente Commissione di Studio auspica che codesta Commissione Europea, nell’ambito dei suoi compiti di vigilanza e di tutela del diritto comunitario, possa presto intraprendere un’adeguata azione nei confronti dello Stato italiano ai fini di un sollecito superamento dei segnalati conflitti normativi.

A.I.D.C.

Associazione Italiana Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili


 Il Presidente A.I.D.C. Milano           Il Presidente della Commissione

 

____________________________                   _____________________________

      (Dott. Edoardo Ginevra)              (Dott. Alessandro Savorana)