AIDC - Sezione di Milano

Denuncia del 12/03/2016
ILLEGITTIMITA’ COMUNITARIA DEL REGIME FISCALE SULLE CONTROLLED FOREIGN COMPANIES (“CFC rules”) APPLICATO A SOCIETA’ ED ENTI CON SEDE IN ALTRO STATO COMUNITARIO come previsto dall’art. 167, commi 8-bis e 8-ter, del D.P.R. n.917/1986


COMMISSIONE PER L’ESAME DELLA COMPATIBILITA’ DI LEGGI E PRASSI TRIBUTARIE ITALIANE CON IL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

DENUNCIA n.12  -  FISCALITA’ DIRETTA

ILLEGITTIMITA’ COMUNITARIA DEL REGIME FISCALE SULLE CONTROLLED FOREIGN COMPANIES (“CFC rules”) APPLICATO A SOCIETA’ ED ENTI CON SEDE IN ALTRO STATO COMUNITARIO  come previsto dall’art. 167, commi 8-bis e 8-ter, del D.P.R. n.917/1986

a cura di 
Alessandro Savorana – relatore ed estensore
Marco Piazza – correlatore

 

Sommario

  • Norma nazionale confliggente
  • Norme e principi comunitari prevalenti
  • Motivi di conflitto della norma interna
  • Motivo d’inapplicabilità di deroghe alla norma confliggente
  • Verifica della sussistenza dei requisiti di diretta applicabilità
  • La norma domestica nel contesto del Piano d’azione della Commissione UE. 
  • Conclusioni 

1. NORMA NAZIONALE CONFLIGGENTE
L’oggetto della presente denuncia investe la normativa domestica in materia di CFC rules di cui all’art. 167 del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 “Testo Unico delle imposte sui redditi” (in seguito anche T.U.I.R.), che per effetto di una modifica introdotta dall’art. 13 del D.L. 1° luglio 2009 n. 78, convertito in Legge 3 agosto 2009 n.102, con decorrenza dal 1° gennaio 2010 ne prevede l’estensione anche alle imprese, società ed enti, localizzate in Paesi a fiscalità ordinaria, compresi, dunque, gli Stati membri dell’Unione Europea, se contemporaneamente ricorrano le seguenti condizioni:
i soggetti controllati sono assoggettati a una tassazione effettiva nello Stato UE di residenza inferiore a più della metà di quella cui sarebbero stati soggetti ove residenti in Italia;
hanno conseguito proventi derivanti per più del 50 per cento da passive income o da servizi infragruppo, anche finanziari.

Come anticipato, l’articolo 167 del T.U.I.R., da ultimo modificato per effetto della Legge 28.12.2015 n. 208 (Legge di Stabilità 2016), è inserito nel corpus della legge al Titolo III, capo II  fra le disposizioni comuni in materia di imposizione diretta, e disciplina in materia di imprese estere controllate ubicate in Paesi a fiscalità privilegiata, determinandone l’imposizione in capo al soggetto controllante residente in Italia. Si tratta, come detto, della disciplina sulle Controlled Foreign Companies (“CFC rules”), diretta a contrastare l’erosione della base imponibile derivante dalla localizzazione all’estero in Stati o territori con regime fiscale privilegiato, di attività d’impresa da parte di soggetti fiscalmente residenti in Italia. 

Le disposizioni che costituiscono l’oggetto della presente denuncia sono contemplate nei commi 8 bis e 8 ter del predetto art. 167 T.U.I.R., e prevedono che allorché un soggetto residente in Italia detiene, direttamente o indirettamente il controllo di un'impresa, di una società o altro ente, residente o localizzato in Stati appartenenti all'Unione europea ovvero a quelli aderenti allo Spazio economico europeo con i quali l'Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni, i redditi conseguiti dal soggetto estero controllato sono imputati, a decorrere dalla chiusura dell'esercizio o periodo di gestione del soggetto estero controllato, ai soggetti residenti in proporzione alle partecipazioni da essi detenute, qualora ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni,  sono assoggettati a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella a cui sarebbero stati soggetti ove residenti in Italia; 

hanno conseguito proventi derivanti per più del 50% dalla gestione, dalla detenzione o dall'investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica nonché' dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l'ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l'ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari. 

Le disposizioni sulle CFC rules non si applicano se il soggetto residente dimostra che l'insediamento all'estero non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale.

La disciplina sopra esposta torna applicabile anche nei confronti di stabili organizzazioni ubicate in uno Stato membro dell’UE. Infatti, i commi 3 e 4 dell’art. 168-ter del T.U.I.R. negano il ricorso alla regime della branch exemption  (“Esenzione degli utili e delle perdite delle stabili organizzazioni di imprese residenti”), qualora ricorrano congiuntamente le condizioni di cui al comma 8-bis del medesimo articolo 167. Peraltro  l'opzione per la branch exemption  può esercitarsi solo qualora ricorra l’esimente di cui al comma 8-ter del già citato articolo 167 T.U.I.R., cioè che il contribuente dimostri che la stabile organizzazione non sia una costruzione artificiosa.

La norma trova applicazione nei confronti di soggetti fiscalmente residenti in Italia e precisamente:
le persone fisiche, ai sensi dell’art. 2 del D.P.R. n. 917/1986, indipendentemente dal fatto che esercitino o meno un’attività d’impresa ovvero un’arte o una professione;
le società di persone, indicate nell’articolo 5 del D.P.R. n. 917/1986 e precisamente:  società semplici; società in nome collettivo; società in accomandita semplice; società di armamento; società di fatto; le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l'esercizio in forma associata di arti e professioni;
i soggetti indicati nell’art. 73, primo comma lettere a, b e c, del D.P.R. n. 917/1986:
le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione, nonché le società europee di cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 e le società cooperative europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003;
gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali;
gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali.

Qualora si verifichino i presupposti impositivi, dunque, il reddito conseguito dal soggetto estero partecipato è imputato per trasparenza, indipendentemente dalla effettiva distribuzione dello stesso sotto forma di dividendi, al soggetto residente controllante in proporzione alla partecipazione detenuta nel periodo d’imposta coincidente a quello della chiusura dell'esercizio o periodo di gestione del soggetto estero partecipato. Il reddito è assoggettato a tassazione separata con l'aliquota media applicata sul reddito complessivo del soggetto residente e, comunque, non inferiore all’aliquota ordinaria dell’imposta sul reddito delle società, oggi pari al 27,50 per cento

In sostanza il contribuente, all’interno della dichiarazione fiscale annuale, effettua due liquidazioni soggette a regimi impositivi diversi: il reddito “ordinario” è assoggettato ad aliquota di imposta progressiva IRPEF, se persona fisica, ovvero proporzionale se ente o società soggetta ad IRES; il reddito da CFC viene tassato separatamente, alternativamente ai fini IRPEF o IRES, e non concorre, dunque, a formare un’unica base imponibile complessiva. 

Sotto un profilo tecnico-procedurale, il reddito della CFC è così individuato: 
il reddito dell’entità estera deve essere ri-determinato in base alle vigenti disposizioni domestiche sul reddito d’impresa previste per le società di capitali (titolo II, capo II, del T.U.I.R.), tenendo conto di specifiche norme per le imprese di assicurazione e le operazioni di natura finanziaria-;
con riferimento alle holding, poiché in Italia i dividendi concorrono a formare il reddito imponibile nella misura del 5% e i costi relativi alla partecipazione sono deducibili, a differenza delle regole applicabili in diversi Paesi europei che prevedono l’esenzione totale dei dividendi e la totale indeducibilità dei costi, la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 51/E del 6.10.2010, ha stabilito che le holding non residenti ricadano comunque nell’ambito applicativo della norma in commento. Le stesse, pertanto, qualora intendano disapplicare la CFC rule, devono comunque dimostrare di non costituire “costruzione artificiosa”, nonostante sia riconosciuta la sostanziale equivalenza tra l’esenzione totale e l’indeducibilità dei costi, da un lato, e la tassazione dell’1,375 per cento a fronte della deducibilità dei costi, dall’altro;
 ai sensi dell’art. 84 TUIR, è ammesso il riporto delle perdite della partecipata estera  ma solo con effetto sugli eventuali redditi futuri della partecipata stessa e, quindi, non dal reddito “ordinario” del soggetto controllante italiano. In realtà per le (presunte) CFC comunitarie, secondo quanto chiarito dalla già citata circolare n. 51/E, la tassazione effettiva dello Stato estero deve essere determinata al netto degli effetti del riporto delle perdite pregresse maturate a decorre dal 1° gennaio 2010, data di entrata in vigore del D.L. 1° luglio 2009 n. 78. In altri termini se, in presenza di un reddito dell’esercizio, non sono dovute imposte grazie alla compensazione di tale reddito con perdite di esercizi anteriori, la tassazione “effettiva estera” è considerata per quell’esercizio pari a zero;
dall'imposta così determinata sono ammesse in detrazione le imposte pagate all'estero a titolo definitivo;
 gli utili distribuiti, in qualsiasi forma, dai soggetti non residenti non concorrono alla formazione del reddito dei soggetti residenti fino all'ammontare del reddito assoggettato a tassazione anche negli esercizi precedenti-;
per effetto di quanto disposto dall’art. 3, comma 5, del Decreto Ministeriale 429/2001, ai fini della determinazione del capital gain, il costo della partecipazione nell'impresa, società o ente non residente é aumentato dei redditi imputati per trasparenza e diminuito, fino a concorrenza redditi degli stessi, degli utili distribuiti.
Questo, pertanto, il quadro generale delle disposizioni  CFC rules concernenti l’analisi della denuncia.

La disciplina sulle c.d. Controlled foreign companies, é stata introdotta nell’ordinamento nazionale quale strumento di contrasto del tax deferral e di protezione delle basi imponibili nazionali. In origine, l’approccio scelto dal legislatore italiano è stato di tipo jurisdictional, e cioè sulla base della localizzazione del soggetto estero in uno Stato o territorio con fiscalità privilegiata e non di tipo transactional, e cioè in base al tipo di transazione. 

Le modifiche apportate dal D.L. n. 78, per un verso, tendono a rafforzare il presidio contro le localizzazioni di comodo, richiedendo una più adeguata dimostrazione del radicamento della controllata nel paese ospite; per altro verso, in particolare verso le imprese domiciliate in Stati white list (tra cui quelli comunitari) adottano un criterio ibrido: jurisdictional, per quanto concerne il livello di tassazione dello Stato di residenza della legal entity, e transactional, in quanto hanno riguardo anche alla natura dei redditi, per fronteggiare fenomeni di distrazione dei profitti, tramite localizzazioni fittizie dei passive income o delle attività mobili.

Ricapitolando, oggetto della presente denuncia sono, quindi, le modifiche normative  recate dal D.L. n. 78 che hanno esteso le CFC rules anche ad imprese, società ed enti, localizzate in Stati membri dell’Unione europea, se contemporaneamente ricorrono le seguenti due condizioni:
i soggetti controllati sono assoggettati a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella cui sarebbero stati soggetti ove residenti in Italia;
hanno conseguito proventi derivanti per più del 50 per cento da passive income e da servizi infragruppo, anche finanziari.

Le disposizioni non si applicano a condizione che il soggetto residente dimostri che l'insediamento all'estero non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale. A tale fine il contribuente ha la facoltà di rivolgersi all'amministrazione finanziaria presentando apposito interpello ai sensi del comma 5 dell’articolo 167.
La disciplina recata dai commi 8-bis e 8-ter dell’art. 167 T.U.I.R., come si illustrerà meglio in seguito, si pone in netto contrasto con il principio di proporzionalità  con conseguente lesione della libertà di stabilimento sancita dal Trattato, nonché con l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea.

Pur essendo del tutto giustificabile che uno Stato reagisca contro società “schermo” o “fantasma” a difesa del legittimo potere impositivo, la disciplina colpisce indistintamente ed indiscriminatamente tutte le legal entity domiciliate negli Stati dell’UE che usufruiscono di un livello impositivo effettivo inferiore al 50% rispetto a quello domestico laddove si limitino a gestire passive income o prestare servizi, anche finanziari, infragruppo, lasciando all’amministrazione fiscale ampia ed eccessiva discrezionalità nella valutazione delle prove addotte dal contribuente.

La nuova disciplina introduce, surrettiziamente, una presunzione legale relativa di queste società, considerandole “costruzioni artificiose” allorché ricorrono le condizioni di legge, sì da assoggettarne a tassazione l’eventuale reddito, per trasparenza, in capo al controllante residente in Italia. L‘interpello sia pur facoltativo comporta nella sostanza una gravosa inversione dell’onere della prova a carico del soggetto controllante residente. 

Il combinato disposto dei commi 8-bis e 8-ter, essendo tra loro strettamente collegati, va infatti interpretato attraverso una loro lettura al contrario e precisamente:
“ Si considerano costruzioni artificiose le società che traggano più del 50% dei loro proventi da passive income o servizi intragruppo, anche finanziari, fatta salva la dimostrazione da parte del soggetto controllante che l’insediamento nello Stato UE è reale e non volto a conseguire un indebito vantaggio fiscale”.   
L’inversione dell’onere della prova, unita al fatto che si verte nell’ambito del diritto positivo, quindi all’applicazione diretta della pretesa tributaria, contrasta sia con la libertà di stabilimento sia con il principio di proporzionalità in quanto eccessiva rispetto a quanto necessario per conseguire l’obiettivo di contrastare gli arbitraggi fiscali.

I penetranti poteri d’indagine dell’amministrazione finanziaria, unitamente al rafforzamento dello scambio d’informazioni in ambito internazionale e comunitario, possono consentire a quest’ultima di validare la propria pretesa tributaria; diversamente, si consente agli organi preposti all’accertamento, come detto, una ampia discrezionalità delle ragioni portate dal contribuente, con il pericolo che questa discrezionalità si traduca in un “libero convincimento” del funzionario preposto al controllo.

Quanto al concetto di “costruzione artificiosa”, la giurisprudenza comunitaria, come si esporrà  in seguito, ne ha definito l’ambito per cui, attraverso lo scambio d’informazioni, l’amministrazione finanziaria non avrebbe difficoltà a contestare l’applicabilità delle disposizioni CFC al verificarsi, in concreto, della fattispecie in oggetto.

Il recente decreto legislativo sull’internazionalizzazione delle imprese non risolve alla radice questa palese violazione; infatti, il nuovo comma 8-quater dell’art. 167 T.U.I.R. lascia impregiudicata la facoltà all’amministrazione di “non ritenere idonee le prove addotte”, ma non le impone – in via preventiva - di provare anch’essa la costruzione artificiosa. Ciò concede all’Amministrazione finanziaria totale discrezionalità di giudizio, negando, inoltre, al contribuente di sottoporre a sindacato giurisdizionale la risposta dell’Amministrazione Finanziaria in caso di parere negativo all’interpello.
In definitiva, la nuova disciplina introduce una presunzione predeterminata di evasione o elusione fiscale che confligge con il diritto comunitario.

Quanto sopra è ancor più evidente nel caso delle holding per le quali il meccanismo di inversione dell’onere della prova “scatta automaticamente”, per il solo fatto che in Italia la doppia imposizione economica è eliminata tassando comunque il 5% dei dividendi e deducendo i costi di gestione della partecipazione, mentre in diversi altri Stati europei è prevista  l’esenzione totale dei dividendi e la totale indeducibilità dei costi. 

2) NORMA COMUNITARIA PREVALENTE
Le norme del diritto comunitario che si ritengono violate dalla disposizione nazionale sopra illustrata (articolo 167, commi 8-bis e 8-ter del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 – “Testo Unico delle imposte sui redditi”), sono le seguenti:
Libertà di stabilimento 
Articolo 49 (ex articolo 43 TCE) del T.F.U.E. 
Articolo 54 (ex articolo 48 TCE) del T.F.U.E. 

Principio di proporzionalità
Come statuito dalle pronunce della Corte di Giustizia dell’unione europea
Diritto a un ricorso effettivo
Articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea 

3) MOTIVI DI CONFLITTO DELLA NORMA INTERNA
L’esponente Commissione di Studio ritiene che la normativa nazionale sopra illustrata configga con la prevalente normativa comunitaria sotto due diversi profili:
ostacolo al libero stabilimento di iniziative economiche tramite enti, società o imprese in altri Stati della Comunità europea.
violazione del precetto di proporzionalità nell’inversione dell’onere della prova a carico del soggetto controllante residente che, per effetto della norma domestica, costituisce una presunzione “predeterminata” di evasione o elusione fiscale;

1. Ostacolo alla libertà di stabilimento per l’intrapresa economica in società, enti od imprese costituite secondo la legislazione di uno Stato membro.
La norma contenuta nell'art. 49 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (in seguito T.F.U.E.), mira a garantire il trattamento nazionale a qualsiasi cittadino di uno Stato membro che si stabilisca, anche solo in via secondaria, in altro Stato membro per esercitarvi un'attività non subordinata. 

Nell'oggetto del diritto di stabilimento rientrano anche la costituzione e gestione di imprese, conformemente alle disposizioni che la legge del Paese di accoglienza stabilisce per i suoi cittadini, nonché la costituzione di agenzie, succursali o affiliate da parte dei cittadini comunitari stabiliti a titolo principale nel territorio di un altro Stato membro. A norma dell'art. 54 del T.F.U.E., il diritto di stabilimento comprende, poi, per le imprese sociali costituite secondo il diritto di uno Stato membro ed aventi la sede sociale, l'amministrazione centrale o il centro di attività principale nel territorio comunitario, il diritto di operare in altro Stato membro mediante uno stabilimento secondario. Da questa libertà fondamentale ne discendono, come corollari, altre tre: (i) l'attività d'impresa può essere esercitata in forma societaria in uno Stato membro mediante una società nazionale di quello Stato o di un altro Paese membro; (ii) la società ha il diritto di scegliere, ai fini dello stabilimento secondario, fra la creazione di una filiale o di una succursale; e (iii) la società straniera è titolare, nello Stato dello stabilimento secondario, degli stessi diritti di cui quivi godono le società nazionali. 

Poiché la disposizione liberale dell’originario art. 43 CEE (ora art. 49 T.F.U.E.) poteva essere interpretata nel senso dell'ammissione al beneficio della libertà di stabilimento secondario anche delle persone giuridiche aventi nel territorio comunitario la sede statutaria, ma non anche la sede sociale «reale», vale a dire l'amministrazione centrale, né il centro di attività principale, è presto emersa la necessità di precisare a quali condizioni tale libertà sia soggetta con riguardo alle società stabilite a titolo principale al di fuori della Comunità. Come ha chiarito il programma generale per la soppressione delle restrizioni alla libertà di stabilimento, stabilito dal Consiglio il 18 dicembre 1961, a tal fine dovrà essere soddisfatto un criterio di collegamento ulteriore, di natura economica: quello del legame «effettivo e continuato» con l'economia di uno Stato membro. 

Il criterio di collegamento, in origine, era quindi riferito alle sole società extracomunitarie; successivamente, in virtù di un’evoluzione di pensiero della Corte di Giustizia dell’Unione Europea già a partire dal caso Centros, la presenza di un legame effettivo di natura economica con lo Stato UE di stabilimento è principio acquisito dall’acquis comunitario indipendentemente che si tratti di società costituite all’interno o all’esterno della comunità.  

Il legame, pertanto, dovrà essere costituito dalla presenza di una dipendenza della società nel territorio di un Paese membro, purché l'attività dell'articolazione territoriale abbia carattere permanente, effettivo e rilevante, escludendo che detto legame possa dipendere dalla cittadinanza in particolare dei soci o dei membri degli organi di gestione o di controllo, o di persone che detengano il capitale sociale.

Quanto al contenuto del richiamato diritto di stabilimento secondario, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha messo in luce che la sede delle società interessate “serve per determinare, al pari della cittadinanza delle persone fisiche, il loro collegamento all'ordinamento giuridico di uno Stato”. Ammettere che lo Stato membro di stabilimento possa liberamente riservare un trattamento diverso per il solo fatto che la sede di una società si trova in un altro Stato membro svuoterebbe quindi di contenuto la disposizione dell'art. 49 del Trattato. 

Dalla giurisprudenza Corte di Giustizia si desume, poi, «che le norme sulla parità di trattamento vietano non solo le discriminazioni palesi a motivo della cittadinanza, o della sede nel caso delle società, ma anche ogni forma dissimulata di discriminazione che, applicando altri criteri distintivi, porti in pratica allo stesso risultato». Analogamente, la Corte ha dichiarato incompatibili con il Trattato misure statali non discriminatorie, e tuttavia suscettibili di ostacolare o scoraggiare l'esercizio da parte dei cittadini (o delle società) comunitari delle libertà fondamentali garantite dal diritto comunitario.

Occorre poi ricordare che l’art. 49 T.F.U.E. non vieta soltanto le restrizioni alla creazione di una controllata in un altro Stato membro poste dallo Stato di stabilimento, ma anche quelle imputabili allo Stato di origine. Così, secondo una giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia, le disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento, anche se, alla lettera, intendono specificamente assicurare il beneficio del trattamento nazionale nello Stato di stabilimento, vietano anche che lo Stato di origine intralci lo stabilimento in un altro Stato membro di uno dei suoi cittadini o di una società costituita in conformità della sua legislazione. Peraltro, perché una normativa possa essere considerata come restrittiva della libertà di stabilimento, è sufficiente che essa sia tale da restringere l’esercizio di questa libertà in uno Stato membro per società o persone aventi sede in un altro Stato membro, senza che occorra dimostrare che la normativa di cui trattasi ha effettivamente avuto l’effetto di indurre alcune di dette società o persone a rinunciare all’acquisizione, alla creazione o al mantenimento di una controllata nel primo Stato membro.

Le statuizioni di cui sopra tornano applicabili al fondamento della presente denuncia.

Un’interpretazione logico sistematica dei commi 8-bis e 8-ter dell’art. 167 T.U.I.R., mette in risalto la presunzione predeterminata di “costruzione artificiosa” insita nelle disposizioni in esame. 

Come abbiamo messo in evidenza, i commi 8-bis e 8-ter dell’art. 167, al ricorrere delle condizioni ivi previste, prevedono la tassazione – per trasparenza e separatamente – del reddito ascrivibile all’impresa, ente o società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro, in capo al soggetto residente controllate. L’imposizione è, dunque, immediata in quanto le disposizioni di legge considerano, in via di principio, costruzioni artificiose, salvo prova contraria, le imprese, le società e gli enti, stabilite nella Comunità europea, che possono usufruire di una legislazione fiscale più vantaggiosa allorché traggono, alternativamente, più del 50% dei propri proventi:
dalla gestione, detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie;
ovvero, dalla cessione o concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica;
ovvero, attraverso la prestazione di servizi infragruppo, di qualunque genere o natura, ivi compresi quelli finanziari.
Il contribuente in via preventiva tramite interpello probatorio ( cui però è negato il sindacato giurisdizionale in caso di mancato accoglimento delle prove addotte), ovvero in sede di controllo dell’amministrazione, deve dimostrare che la legal entity UE non è una costruzione artificiosa per trarne un indebito vantaggio fiscale, ma questo, a nostro parere non è sufficiente.

Il tema centrale è che siamo in presenza di una presunzione legale volta ad attrarre a tassazione il reddito di società o imprese stabilite all’interno della Comunità che presentino determinati requisiti; questo equivale a una restrizione alla libertà di stabilimento in assenza di ulteriori elementi che giustifichino la fondata esistenza di una frode, evasione o elusione fiscale.
La questione, in via di principio, non è senza conseguenze. 

E’ indubbio, infatti, che enti, società o anche persone fisiche residenti in Italia che intendano approfittare di una legislazione più vantaggiosa, anche sotto il profilo fiscale, per costituire o acquisire una società in altro Stato membro, ne siano dissuase, con la naturale conseguenza di rinunciare all’acquisizione, alla creazione o al mantenimento di una controllata in altri Stati membri; sotto quest’ ultimo aspetto, non è ininfluente ricordare che la Corte di Giustizia ha reiteratamente affermato che costituiscono restrizioni alla libertà di stabilimento misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio alla libertà di stabilimento. 

Eppure dalla sentenza Centros si ricava il principio fondamentale secondo il quale, “…il fatto che un cittadino di uno Stato membro che desideri creare una società scelga di costituirla nello Stato membro le cui norme di diritto societario gli sembrino meno severe e crei succursali in altri Stati membri non può costituire di per sé un abuso del diritto di stabilimento. Infatti, il diritto di costituire una società in conformità alla normativa di uno Stato membro e di creare succursali in altri Stati membri è inerente all'esercizio, nell'ambito di un mercato unico, della libertà di stabilimento garantita dal Trattato”.

Inoltre, “…il fatto che una società non svolga alcuna attività nello Stato membro in cui essa ha la sede e svolga invece le sue attività unicamente nello Stato membro della sua succursale non è sufficiente a dimostrare l'esistenza di un comportamento abusivo e fraudolento, che consenta a quest'ultimo Stato membro di negare a tale società di fruire delle disposizioni comunitarie relative al diritto di stabilimento”.

Il diritto di stabilimento è essenziale per l'attuazione degli obiettivi prefigurati dal Trattato, che intende garantire, indistintamente a tutti i cittadini comunitari, la libertà di intrapresa economica, attraverso gli strumenti apprestati dal diritto nazionale, assicurando loro la chance di inserimento nel mercato, quali che siano gli intenti da cui il beneficiario possa esser mosso in concreto. “Altrimenti detto, è l'opportunità di iniziativa economica ad essere tutelata, ed insieme con essa la libertà negoziale di giovarsi degli strumenti a tal fine predisposti negli ordinamenti degli Stati membri.” 
E’ questo il punto centrale di partenza. 

Un soggetto italiano, sia esso persona fisica o giuridica, deve poter usufruire delle libertà ex artt. 49 e 54 del T.F.U.E. qualora intenda insediare un’attività economica in un altro Stato membro a prescindere dal fatto che la sua filiale detenga e gestisca passive income ovvero eserciti qualsiasi attività di servizi all’interno di un gruppo societario, compresi quelli finanziari. Pianificare l’attività economica e gli investimenti attraverso una società controllata in un altro Stato membro può costituire una forma appropriata di condurre i propri affari e non necessariamente, o non solo, per conseguire vantaggi fiscali. 

La localizzazione della società in altro Stato membro della Comunità Europea può anche ( ma – ovviamente - non esclusivamente),  essere motivata da ragioni di pianificazione fiscale (tax planning), laddove:
l’imposizione diretta risulti più vantaggiosa (e dunque meno onerosa) non solo con riguardo all’aliquota nominale di tax rate, ma anche in funzione di regole per la determinazione della base imponibile più favorevoli (ad esempio: processi di ammortamento dei cespiti, anche immateriali, maggiormente rispondenti al grado di obsolescenza o senescenza; riconoscimento in deduzione di costi altrimenti non ammessi, o limitati, nello Stato di origine; legittime misure che consentono detrazioni e crediti d’imposta concessi per agevolare gli investimenti, ecc….);
lo Stato UE disponga di una favorevole rete di Trattati contro le doppie imposizioni, che consenta significativi risparmi in termini di ritenute convenzionali su interessi, royalty e dividendi (c.d. witholding tax);
costi di tax compliance significativamente inferiori, nonché chiara formazione di norme, regolamenti o atti amministrativi in materia tributaria e rapporti con l’amministrazione fiscale locale improntati su principi di parità e di reciproco rispetto-.

Ed è in forza di tutte le ragioni sopra esposte che, “..un cittadino comunitario, persona fisica o giuridica, non può essere privato della possibilità di avvalersi delle disposizioni del Trattato solo perché ha inteso approfittare dei vantaggi fiscali offerti dalle norme in vigore in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede..“_.

La libertà di stabilimento, che l’art. 49 T.F.U.E. attribuisce ai cittadini della Comunità e che implica per essi l’accesso alle attività non subordinate ed il loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese, alle stesse condizioni previste dalle leggi dello Stato membro di stabilimento per i cittadini di questo, comprende, ai sensi dell’art. 54 T.F.U.E., per le società costituite a norma delle leggi di uno Stato membro e che abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o la sede principale nel territorio della Comunità, il diritto di svolgere la loro attività nello Stato membro di cui trattasi mediante una controllata, una succursale o un’agenzia.

Nel caso di specie, la legislazione italiana in esame costituisce un ostacolo alla libertà di stabilimento, poiché introduce una “predeterminata” presunzione di elusione, frode od evasione fiscale.  Siamo, infatti, in presenza di un trattamento fiscale discriminatorio che svantaggia persone o società che hanno costituito, o intendono istituire, una controllata in uno Stato UE con regime fiscale più favorevole, e ben può dissuadere un residente dall’esercitare il proprio diritto di stabilimento. Uno Stato membro non può, infatti, trattare in maniera differenziata i suoi residenti che costituiscono controllate all’estero in funzione dell’aliquota fiscale dello Stato di stabilimento.

Le conclusioni cui si perviene non possono essere disattese dalla circostanza che le norme domestiche fanno dipendere la disciplina in esame all’ulteriore condizione che l’attività prevalente sia  circoscritta  alla gestione di cespiti da cui derivano passive income ovvero attività di servizi di qualsiasi natura, anche finanziari, infragruppo.

Tutto fa leva sulla prova (negativa) che l’entità non è una costruzione artificiosa costituita allo scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale. La prova richiesta al soggetto residente controllante elimina in radice l’onere per l’Amministrazione finanziaria di dimostrare  l’esistenza di una società “schermo” o “fantasma”, o di accertare singole operazioni (c.d. pratiche artificiose) eventualmente intercorse tra i soggetti controllanti e la società UE. Tutto si riduce, pertanto, nella valutazione (discrezionale) delle prove che il soggetto residente esibisce.

Per quanto sopra esposto, ripercorrendo le statuizioni di una consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, appare evidente il contrasto dell’art. 167 del T.U.I.R. commi 8-bis e 8-ter, con gli articoli 49 e 54 del Trattato laddove:
un cittadino comunitario, persona fisica o giuridica, non può, essere privato della possibilità di avvalersi delle disposizioni del Trattato solo perché ha inteso approfittare dei vantaggi fiscali offerti dalle norme in vigore in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede;
la circostanza che la società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà. Ne consegue che, il fatto che una Società abbia deciso di costituire controllate in altro Stato UE al fine di beneficiare del favorevole regime fiscale che tale stabilimento comporta non costituisce di per sé un abuso e quindi non preclude alla prima società la possibilità di invocare gli artt. 43 CE e 48 CE
;
le disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento vietano che lo Stato d’origine intralci lo stabilimento in un altro Stato membro di un proprio cittadino o di una società costituita secondo la propria legislazione; 
un trattamento fiscale differenziato derivante da legislazioni particolari
e lo svantaggio che ne risulta per le società residenti che dispongono di una controllata soggetta, in un altro Stato membro, ad un livello di tassazione inferiore sono atti che potenzialmente possono ostacolare l’esercizio della libertà di stabilimento da parte di tali società, dissuadendole dal costituire, acquisire o mantenere una controllata in uno Stato membro….Essi integrano, quindi, una restrizione alla libertà di stabilimento nel senso degli artt. 43 CE e 48 CE;
la mera circostanza che una società residente crei uno stabilimento secondario, per esempio una controllata, in un altro Stato membro non può fondare una presunzione generale di frode fiscale, né giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato;
se uno Stato membro potesse a suo piacimento dare luogo ad una disparità di trattamento per il solo fatto che la sede di una società è situata in un altro Stato membro, le disposizioni attinenti alla libertà di stabilimento verrebbero svuotate del loro contenuto.

4) MOTIVI DI INAPPLICABILITA’ DI DEROGHE ALLA NORMA CONFLIGGENTE
Le considerazioni esposte nel precedente paragrafo 3 riguardo alla violazione, da parte dell’Italia, degli articoli 49 e 54 T.F.U.E. sono soggette ai limiti contenuti nei principi generali dell’ordinamento comunitario secondo cui:
i cittadini di uno Stato membro non possono tentare, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, di sottrarsi abusivamente all’impero delle loro leggi nazionali, né possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario; 
la lotta contro l’evasione o la frode fiscale e le necessità di un controllo fiscale, costituiscono motivi imperativi d’interesse generale, che possono, in linea di principio, giustificare restrizioni alla libertà di stabilimento.

Le restrizioni ai principi delle libertà garantite dal Trattato, sopra illustrate, sono esaminate congiuntamente.

A) Contrasto all’abuso del diritto comunitario
In primo luogo occorre prendere atto del fatto che in via di principio la costituzione o l’acquisizione del controllo di una società residente in altro Stato membro non costituisce di per sé un abuso, quanto l’esplicitazione più ampia della libertà di insediamento nel territorio comunitario, quand’anche una persona fisica o giuridica volesse insediarsi in altro Stato comunitario per convenienza fiscale, purché ovviamente non esclusiva.
Come ha puntualmente osservato anche codesta Commissione Europea, la Corte di Giustizia ha espressamente confermato che è perfettamente legittimo tener conto di considerazioni di ordine fiscale per decidere dove creare uno stabilimento secondario. 

L’obiettivo di ridurre al minimo l’onere fiscale costituisce di per sé una considerazione commerciale valida, purché le costruzioni attuate a questo fine non siano fittizie. Se i contribuenti  non sono incorsi in pratiche abusive, gli Stati membri non possono impedire l’esercizio dei diritti della libertà di circolazione solo perché altri Stati membri hanno una fiscalità poco elevata. 

Questo vale anche con riguardo a speciali regimi favorevoli nei sistemi fiscali di altri Stati membri. Le distorsioni legate all’ubicazione delle attività imprenditoriali come conseguenza di aiuti di Stato non compatibili con il diritto comunitario e di concorrenza fiscale dannosa non autorizzano gli Stati membri a prendere misure unilaterali per combatterne gli effetti lesivi limitando la libertà di circolazione; esse devono piuttosto essere risolte alla fonte mediante le appropriate procedure giudiziarie o politiche.

Certo, i cittadini di uno Stato membro non possono tentare, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, di sottrarsi abusivamente all’impero delle loro leggi nazionali, né possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario. Ma non può considerarsi “in sé” un abuso il motivo di un lecito risparmio fiscale. 

La costituzione ed il mantenimento del controllo di una filiale in altro Stato membro può essere anche connesso a motivi di strategia imprenditoriale ed il fatto di minimizzare l’onere fiscale può essere una delle ragioni, ma non necessariamente quella esclusiva. La sede dove localizzare i propri affari è, dunque, scelta che può anche prescindere da mera convenienza fiscale e, più propriamente, volta a conseguire obiettivi economici di medio/lungo periodo laddove sono più favorevoli le condizioni per raggiungerli, in funzione di una pluralità di fattori che soddisfano e favoriscono la crescita e lo sviluppo dell’impresa o di un gruppo.

In ogni caso, la Corte di Giustizia ha precisato che «….una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento… è ammessa solo se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate a sottrarre l’impresa alla legislazione dello Stato membro interessato». La costituzione di una società sussidiaria deve pertanto corrispondere a una realtà economica, cioè ad un insediamento reale che abbia per oggetto l’espletamento di attività economiche effettive nello Stato membro di stabilimento. 

«Ne consegue che, perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale.».

Risulta però dalla giurisprudenza costante della Corte di Giustizia che la mera circostanza che una società residente crei uno stabilimento secondario, per esempio una controllata, in un altro Stato membro non può fondare una presunzione generale di frode fiscale, né giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato.

Infatti, «..un trattamento fiscale differenziato derivante da legislazioni particolari e lo svantaggio che ne risulta per le società residenti che dispongono di una controllata soggetta, in un altro Stato membro, ad un livello di tassazione inferiore sono atti che potenzialmente possono ostacolare l’esercizio della libertà di stabilimento da parte di tali società, dissuadendole dal costituire, acquisire o mantenere una controllata in uno Stato membro….Essi integrano, quindi, una restrizione alla libertà di stabilimento nel senso degli artt. 43 CE e 48 CE.»

Pertanto, «la constatazione deve poggiare su elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi, relativi, in particolare, al livello di presenza fisica della società in termini di locali, di personale e di attrezzature. Se la verifica di questi elementi portasse a constatare che la società domiciliata in uno Stato CE corrisponde a un’installazione fittizia che non esercita alcuna attività economica effettiva sul territorio dello Stato membro di stabilimento, la creazione di questa società dovrebbe essere ritenuta costruzione di puro artificio. Potrebbe essere questo il caso, in particolare, di una società “fantasma” o “schermo”».-

Il principio, dirimente sotto l’aspetto sostanziale è, dunque, quello della riconoscibilità dell’attività imprenditoriale della filiale da parte dei terzi nel luogo prescelto di stabilimento, atta ad avvalorare che l’impresa corrisponde a una realtà economica che esercita un’effettiva attività d’impresa.

Il requisito della riconoscibilità è stato affrontato dalla Corte di Giustizia, per la prima volta, nel caso Eurofood ISFC . In particolare il giudice del rinvio chiedeva quale fosse, nel caso di una società madre e della sua controllata aventi le rispettive sedi statutarie in due diversi Stati membri, l’elemento determinante per identificare il centro degli interessi principali della controllata , ma soprattutto a chi spettava vincere la presunzione prevista dal Regolamento n. 1346/2000 all’art. 3, nn. 1 e 2, il quale prevede per le società e le persone giuridiche il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede statutaria.

Secondo la Corte, per determinare il centro degli interessi principali di una società, una presunzione può essere superata “….soltanto se elementi obiettivi e verificabili da parte di terzi consentono di determinare l’esistenza di una situazione reale diversa da quella che si ritiene corrispondere alla collocazione nella detta sede statutaria. Ciò potrebbe in particolare valere per una società fantasma, la quale non svolgesse alcuna attività sul territorio dello Stato membro in cui si trova la sua sede sociale … “.

Per contro, quando una società svolge la propria attività sul territorio dello Stato membro in cui ha sede, il semplice fatto che le sue scelte gestionali siano o possano essere controllate da una società madre stabilita in un altro Stato membro non è sufficiente per superare detta presunzione stabilita.- . 

Laddove la società controllata, «…esercita in modo abituale la gestione dei suoi interessi secondo modalità riconoscibili da terzi ed in osservanza completa e regolare della sua stessa identità societaria nello Stato membro dove è situata la sua sede statutaria, i requisiti di trasparenza e riconoscibilità sono per definizione soddisfatti». 

Un aspetto intrinseco del concetto di «centro degli interessi principali» è l’esistenza delle realtà funzionali in grado di sostituire criteri meramente formali, da cui ne deriva che: «Qualunque soggetto che cerchi di vincere la presunzione…..deve comunque dimostrare che gli elementi addotti soddisfano i requisiti di trasparenza e riconoscibilità»

Il punto, dunque, è chi è il soggetto che deve provare l’abuso e questo è onere, nel caso specifico, spetta in via prioritaria  all’amministrazione finanziaria sulla base di elementi raccolti e non solo sulla base della valutazione delle prove addotte dal contribuente. 

I principi sanciti nella sentenza  Eurofood IFSC  trovano analogo e pertinente riscontro ai fini della presente denuncia, per la convergente similitudine del concetto di «costruzione di puro artificio», che vale tanto ai fini dei procedimenti di insolvenza quanto sotto l’aspetto tributario.

Il legislatore italiano, nell’introdurre la presunzione ex art. 167/917 non si è posto minimamente il problema di verificare l’esistenza di principi comunitari di riferimento, dotando l’ordinamento tributario di uno strumento che ha il duplice scopo:
da un lato, di attrarre a tassazione il reddito della partecipata estera per effetto delle norme CFC domestiche nel periodo d’imposta in cui è conseguito;
da altro lato, di sollevare l’amministrazione finanziaria dalla necessità di provare se l’impresa controllata è una costruzione di puro artificio.

Ne consegue che il mero controllo di una filiale UE da parte di persone (fisiche o giuridiche) residenti in Italia, che si limiti alla gestione di passive income o a servizi infragruppo,  non può costituire fondamento di presunzione di essere in presenza di una costruzione artificiosa, né costituire presupposto per un’inversione dell’onere della prova che attribuisce all’amministrazione finanziaria una discrezionalità senza alcun limite.
In conclusione, stante i principi sanciti dalla Corte di Giustizia è l’amministrazione finanziaria italiana che deve provare, mediante accertamento di dati ed elementi di fatto, che la filiale UE non è altro che una società schermo o fantasma e che la sede null’altro é ciò che si suol chiamare una «cassetta postale».

B) Contrasto alla lotta e all’evasione ed elusione fiscale
Lo scopo perseguito dal legislatore italiano con l’art. 167, commi 8-bis e 8-ter T.U.I.R. ha duplice natura:
la prima, collegata alla riduzione delle entrate fiscali;
la seconda, prettamente antielusiva e di contrasto all’evasione fiscale, allo scopo di porre un freno alla costituzione di imprese o società in Stati a fiscalità privilegiata, allo scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali previsti dall’ordinamento tributario italiano e, pertanto, sottrarre materia imponibile sulla quale esercitare il prelievo. 

Occorre premettere che, secondo una costante giurisprudenza della Corte di giustizia, i provvedimenti nazionali che possono ostacolare o scoraggiare l'esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato devono soddisfare quattro condizioni: (i) essi devono applicarsi in modo non discriminatorio, (ii) essere giustificati da motivi imperativi di interesse pubblico, (iii) essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e (iv) non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo. 

Va, inoltre, ricordato che gli Stati membri devono rispettare i principi generali del diritto che fanno parte dell’ordinamento giuridico comunitario, quali, in particolare, i principi di certezza del diritto e di proporzionalità.

Tutti i principi sopra indicati sono disattesi dall’art. 167, commi 8-bis e 8-ter del T.U.I.R.

a) Sulla discriminazione
Le disposizioni domestiche svantaggiano la società madre (o la persona fisica) alla quale si applicano rispetto, da un lato, ad un soggetto residente che ha costituito la sua controllata Italia e, dall’altro, a una società madre (o persona fisica) che ha costituito la sua controllata in un altro Stato membro dal regime fiscale non sufficientemente vantaggioso da farne scattare l’applicazione. Nel primo caso, infatti, il soggetto controllante residente non è mai tassato sul reddito prodotto dalla controllata nazionale, nel secondo, non è tassato sul reddito della controllata estera al momento in cui é conseguito, ma solo quando gli utili vengono distribuiti in forma di dividendi. Inoltre, la presunzione (supposta relativa) di essere in presenza di una costruzione artificiosa circa la sussistenza di una società “fantasma” o delle stesse singole operazioni intercose all’interno di un gruppo, non torna applicabile e l’onere della prova ricade interamente sull’amministrazione finanziaria.

Onere della prova che ricade sull’amministrazione finanziaria anche in presenza di società di puro artificio che apparentemente svolgono attività commerciali diverse rispetto a quelle indicate nel comma 8-bis.
Anche supponendo che l’imposta richiesta non ecceda l’ammontare complessivo di quella che sarebbe stata sopportata dall’unità economica costituita dalla società madre e dalle controllate se queste ultime avessero avuto sede Italia non infirma tale analisi: fattispecie analoghe vengono, pertanto, trattate diversamente sotto il profilo della tassazione diretta.

b) Motivi imperativi di interesse pubblico.
Gli Stati hanno sempre opposto, quale giustificazione alle proprie disposizioni “restrittive”, la tutela degli interessi economici derivanti da una riduzione delle entrate fiscali ovvero che le misure erano atte a prevenire il rischio di evasione e, pertanto, destinate ad impedire le frodi o gli abusi.
Questo argomento è stato contraddetto con forza dalla Corte di Giustizia.

La Corte ha sempre sostenuto che la riduzione delle entrate fiscali “…non può essere considerata come un motivo imperativo di interesse generale che possa essere fatto valere per giustificare un provvedimento in linea di principio in contrasto con una libertà fondamentale.”.  Infatti, l’esigenza di impedire la riduzione del gettito tributario non rientra né tra gli obiettivi enunciati all’art. 46, n. 1, CE, né tra le ragioni imperative di interesse generale suscettibili di giustificare una restrizione a una libertà prevista dal Trattato.

c) Idoneità a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e proporzionalità.
Risulta da una consolidata giurisprudenza, che la Corte di giustizia ha sempre respinto norme contrarie ai principi del Trattato, allorché fu posta di fronte all’argomento che le disposizioni interne miravano a prevenire ed evitare evasioni fiscali, statuendo che “………una presunzione generale di evasione o di frode fiscale non può giustificare una misura fiscale che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato”.

Inoltre, sempre in base ad una giurisprudenza costante, perché una disposizione anti-abuso o anti-evasione possa essere accolta, deve non solo essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito, ma è necessario, inoltre, “……..che essa non restringa le libertà fondamentali derivanti dal diritto comunitario in maniera eccessiva rispetto a quanto necessario per conseguire detto obiettivo..”; va da sé che non deve nemmeno provocare una disparità di trattamento in base alla residenza, vietata dal Trattato.

Vi è dunque un’esigenza che salvaguardi il principio di proporzionalità, sia interno, nei confronti dei propri cittadini, sia esterno nei confronti di soggetti fiscalmente residenti in altri Stati UE.

Da quanto precede discende che il carattere sproporzionato di una misura nazionale controversa, impedisce di ritenerla giustificata dalle esigenze del controllo fiscale contro la frode o l’evasione, ed è quindi in contraddizione con una giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia. 

I principi sopra esposti non sono rispettati dalla legislazione italiana atteso che la norma domestica viola i fondamentali principi dell’ordinamento comunitario della causalità, della proporzionalità e della certezza del diritto, che costituiscono i pilastri della legislazione comunitaria, secondo i quali il diritto dello Stato di contrastare eventuali comportamenti che potrebbero, al limite, costituire una forma di abuso delle norme Trattato, anche attraverso disposizioni anti-evasione, pur se formalmente leciti, trova un limite nella necessità che l’azione dello Stato: 
sia idonea a conseguire lo scopo perseguito, nel senso cioè che colpisca solo gli abusi della norma e non anche operazioni che non hanno questo fine (principio di causalità);
e non ecceda quanto necessario per raggiungerlo (principio di proporzionalità).

Abbiamo più volte evidenziato che la norma antielusiva recata dall’art. 167, commi 8- bis e 8-ter del D.P.R. n. 917/1986, introduce nell’ordinamento una sorta di presunzione predeterminata di costruzione artificiosa, rendendo gravoso l’onere per la società di provare l’effettivo insediamento nello Stato UE dell’impresa controllata, attesa la discrezionalità di decisione cui usufruisce l’amministrazione fiscale.

Il principio di proporzionalità, così come quello di causalità, risulta, pertanto, violato per i seguenti motivi.

In primo luogo, il contribuente residente dovrà attuare un processo complicato poiché, allo stato, il contribuente (persona fisica o giuridica) per ciascun periodo d’imposta, dovrà:
verificare se la filiale UE ha conseguito proventi per più del 50 per cento dalle attività indicate nella lettera b) del comma 8-bis che prescindono dal luogo in cui sono stati conseguiti, cioè se nello Stato membro di residenza, da altri Stati membri ovvero per transazioni avvenute con soggetti residenti in Italia;
nel caso sia soddisfatta la condizione di cui sopra, rideterminare il reddito imponibile secondo le norme domestiche e comparare la tassazione effettiva subita dall’impresa controllata nello Stato membro con quella che sarebbe stata applicata se la stessa impresa fosse stata, invece, residente in Italia. Qualora il tax rate dello Stato membro sia più favorevole, il contribuente sarà assoggettato alla disciplina CFC rules domestica.

Ciò equivale ad imporre un monitoraggio per la verifica delle condizioni di legge, che possono essere del tutto assenti per alcuni esercizi ma presenti per altri periodi sociali. 

In secondo luogo, qualora dalla procedura di monitoraggio si realizzi il presupposto per l’applicazione del regime CFC, il contribuente - di fatto - dovrà preventivamente interpellare l’amministrazione finanziaria (si tratta di un interpello probatorio), fornendo dimostrazione che la filiale UE non costituisce una costruzione artificiosa. Ad esempio, se lo Stato membro nel quale è ubicata la filiale introduce norme fiscali vantaggiose volte a ridurre sensibilmente l’imposizione sui passive income o sulle attività di servizio infragruppo, ovvero anche solo a ridurre l’aliquota applicabile sul reddito complessivamente prodotto da imprese i cui ricavi sono, in prevalenza, conseguiti dalle attività dianzi citate, il contribuente nazionale sarà tenuto dapprima alla procedura di comparazione sulla tassazione effettiva e, se positiva, successivamente, anche solo sotto un profilo di cautela, alla presentazione dell’interpello per richiedere la disapplicazione delle CFC rules domestiche.

In definitiva, il soggetto residente per ottenere la disapplicazione del regime CFC dovrebbe “ripetere” la procedura per ciascun periodo d’imposta nel corso del quale le condizioni di legge implicano la tassazione per trasparenza del reddito, al fine di ottenerne la disapplicazione, sostenendo ingenti costi di compliance.

L’interpello, peraltro, sotto un profilo prudenziale, diventa oltremodo obbligatorio laddove il contribuente non voglia incorrere nelle sanzioni penali per “dichiarazione infedele”.

L’art. 4 del D.Lgs. 10.03.2000 n.74  prevede, infatti, che è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, chi al fine di evadere le imposte sui redditi indica nella dichiarazione annuale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo quando, congiuntamente:
l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte redditi (IRPEF – IRES), a 150.000,00 euro;
l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, è superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a 3.000.000,00 euro. 

Atteso che il reddito di CFC va incluso nella dichiarazione unica dei redditi del periodo di imposta in cui è conseguito, seppur tassato per trasparenza e in via separata, si può agevolmente intuire come in mancanza di inserimento del reddito o di preventivo interpello, in caso di accertamento il contribuente si esponga al rischio di una contestazione penale.

In terzo luogo, lo Stato italiano, per quanto disposto dall’art. 8-ter dell’art. 167 del T.U.I.R., ha inteso semplificare ed agevolare il compito all’amministrazione finanziaria, ponendo ad esclusivo carico del contribuente la dimostrazione che l’impresa UE non è una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale. 

E che fornire le prove sia alquanto difficile e, diametralmente, estremamente ampia la discrezionalità dell’amministrazione finanziaria italiana lo si può agevolmente intuire da alcune risposte dell’Agenzia delle Entrate a interpelli in materia di legislazione sulle CFC o per la deducibilità di costi derivanti da operazioni intercorse con imprese domiciliate in Stati o territori non UE aventi regimi fiscali privilegiati.

E’ stato, infatti, escluso l’esercizio di un’effettiva attività economica di una società, controllata, “Cipriota” per il sol fatto che la struttura organizzativa presente a Cipro “appariva meramente embrionale e, pertanto, non idonea a dimostrare lo svolgimento, in loco, di una “attività gestionale e decisionale rilevante”, poiché:
il contratto di locazione della sede sociale era stato stipulato nel gennaio 2007, mentre, con riguardo al 2006, anno per il quale si richiedeva la disapplicazione della normativa CFC, non era stata fornita la prova della disponibilità in Cipro di una struttura idonea allo svolgimento dell'attività dichiarata;
il contratto di fornitura di servizi legali e amministrativi, stipulato nel gennaio 2006 con uno studio legale cipriota, nonché il contratto di fornitura di servizi di revisione e di consulenza contabile e fiscale, anch’esso stipulato nel gennaio 2006 con una locale società di revisione, testimoniano, a parere dell’Agenzia, che il personale disponibile in Cipro è giuridicamente estraneo alla società.

In altro orientamento, l’Amministrazione finanziaria ha negato l’esistenza del requisito della commercialità di una società olandese, partecipata in maggioranza da Società madre italiana, ai fini dell’applicazione della partecipation exemption. In particolare, atteso che la società olandese conseguiva i propri proventi dalla gestione e sviluppo del marchio di proprietà, l’amministrazione finanziaria ha ritenuto che l'attività commerciale ai fini della participation exemption, doveva “…logicamente interpretarsi in senso restrittivo, in conformità alla ratio dell'articolo 87 ……secondo cui per il riconoscimento della pex la partecipata deve svolgere attività non di mero godimento”.

“Al fine della verifica della sussistenza del requisito della commercialità” continua l’Agenzia “… risulta, in altri termini, necessario attribuire rilevanza all'attività effettivamente svolta dalla società partecipata, escludendo l'applicazione dell'esenzione nell'ipotesi di un soggetto partecipato configurante una società senza impresa, circostanza che ricorrerebbe nel caso in cui la società stessa risulti meramente intestataria di "passive income" riconducibili alla percezione di royalty su marchi..”, e concludendo che “………….qualora l'attività della società partecipata olandese sia consistita nel mero sfruttamento economico del marchio di proprietà (risolvendosi, in altri termini, nella percezione di royalties conseguenti alla relativa concessione in licenza d'uso) non potrà dirsi soddisfatto il requisito della commercialità appena menzionato, con conseguente inapplicabilità alla plusvalenza da cessione del regime di participation exemption.”

Applicando questi “indirizzi” al concetto di costruzione artificiosa, si può facilmente immaginare come in sede di interpello non sarà per nulla semplice per il contribuente vincere la presunzione. 

L’inversione dell’onere della prova si appalesa, dunque, misura sproporzionata ed eccessiva rispetto al fine perseguito. Infatti, occorre ricordare che la Corte di giustizia ha già avuto modo di dichiarare che, conformemente al principio di proporzionalità, gli Stati membri devono avere ricorso a mezzi che, pur consentendo di raggiungere efficacemente l’obiettivo perseguito dal diritto interno, portino il minor pregiudizio possibile agli obiettivi e ai principi stabiliti dalla normativa comunitaria controversa. Così, se è legittimo che i provvedimenti adottati dagli Stati membri tendano a preservare il più efficacemente possibile i diritti dell’Erario, essi non devono eccedere quanto è necessario a tal fine.

Nondimeno, anche fosse latente o potenziale il rischio di evasione, per accertare se l'operazione ha quale intento l’evasione fiscale, “…..le autorità nazionali competenti non possono limitarsi ad applicare criteri generali predeterminati, ma devono procedere, caso per caso, ad un esame globale dell'operazione,.. e tale esame deve poter essere oggetto di sindacato giurisdizionale“.

Non è così nel caso in cui l’amministrazione finanziaria ritenga non convincenti le prove addotte dal contribuente, in quanto contro gli interpelli “probatori” l’ordinamento non ammette l’instaurarsi di un contenzioso tributario volto ad acclarare le ragioni del contribuente. L’art. 6 1° comma  del recente D.Lgs. 24 settembre 2015 n. 156,  dispone espressamente che le risposte negative fornite dall’Amministrazione finanziaria alle istanze di interpello “probatorio” ex art. 11 co. 1 lett. b) della L. 212/2000 non sono impugnabili.

Questa negata procedura di sindacato giurisdizionale dell’interpello, oltre ad essere lesiva del diritto a un ricorso effettivo ex art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione, espone quest’ultimo ad un sicuro onere finanziario anticipato connesso alla liquidazione dell’imposta anche se non dovuta. Infatti, se il contribuente non si adegua alla risposta negativa dell’amministrazione finanziaria, dovrà subire l’accertamento e, conseguente ad esso, l’ingiunzione del pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni.

Occorre aggiungere che interpelli come quello connesso alle norme CFC analizzano e qualificano casi concreti, dando luogo a un’attività di accertamento preventivo da parte dell’amministrazione finanziaria, per cui negare il ricorso a giudice terzo espone il contribuente al dubbio fra scegliere un’obbligata imposizione anticipata, al fine di evitare un sicuro accertamento e l’addebito delle sanzioni, oppure resistere demandando la controversia in successiva sede contenziosa.    

L’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che riprende il contenuto dell’art. 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, prevede il diritto ad un ricorso effettivo. A tale diritto, per costante giurisprudenza, corrisponde a carico degli Stati l’obbligo di rendere possibile agli interessati l’accesso ad un mezzo di ricorso che sia effettivo non solo sul piano pratico, ma anche su quello giuridico.

Il diritto ad un ricorso effettivo deve pertanto essere garantito, sulla base della Carta dei diritti fondamentali, ogniqualvolta l’atto emesso dalla pubblica amministrazione sia idoneo a produrre effetti lesivi della sfera giuridica del destinatario, il che si configura, per necessaria aderenza alla ratio dell’art. 47, non solo laddove l’atto della pubblica amministrazione rechi prescrizioni di immediata applicazione, ma anche nel caso in cui il contenuto dell’atto sia così univoco da configurare il successivo e conseguente atto di accertamento come necessitato. Tale vincolo di consequenzialità e necessità risulta indubbiamente sussistente nei rapporti tra risposta negativa all’interpello probatorio ed avviso di accertamento emesso dalla pubblica amministrazione per effetto del mancato adeguamento da parte del contribuente alla risposta negativa.

Vero che può instaurare un contradditorio prima della notifica dell’accertamento nonché ricorrere in sede contenziosa, ma oltre al fatto che, nel primo caso, appare difficile che l’amministrazione possa mutare opinione su una precedente risposta negativa, appare intollerabile impedire il ricorso a un giudice terzo che verifichi se si sia o meno in presenza di una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale.

Per cui, l'istituzione di una norma di portata generale sulla base di criteri come quelli previsti dall’art. 167, commi 8-bis e 8-ter del D.p.r. n. 917/1986, a prescindere da un'effettiva evasione o frode fiscale eccede quanto è necessario per evitare una tale frode o evasione fiscale e pregiudica gli obiettivi perseguiti dagli artt. 49 e 54 del T.F.U.E., tenuto conto che la norma è di fatto corredata di un’ampia discrezionalità lasciata all'autorità amministrativa-, oltre a esser negato il diritto a un ricorso effettivo (art. 47 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione) in caso di risposta negativa a interpello preventivo.

Sul punto ci preme segnalare che la Corte di Giustizia ha affermato che in presenza di costruzioni artificiose o di pratiche artificiose, l’onere della prova incomba prioritariamente all’Amministrazione finanziaria.

Nel caso Commissione – Spagna la Corte ha sancito che provvedimenti antiabuso degli SM “……….non possono essere fondati su di un sospetto generale di frodi. Essi possono essere adottati solo caso per caso, per evitare costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica e finalizzate a eludere l’imposta normalmente dovuta.  Ovviamente in tali casi l’onere della prova della natura fraudolenta o artificiosa dell’operazione di cui trattasi grava sulle autorità nazionali competenti.”.

Ancora, nel caso Glaxo Wellcome, allorché la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su una “pratica artificiosa”, essa ha ritenuto che non può essere conforme al principio di proporzionalità, una misura preordinata avente l’obiettivo di impedire montature di puro artificio prive di effettività economica e realizzate al solo scopo di usufruire indebitamente di un beneficio fiscale, “…che non consente di limitare la propria applicazione alle montature di puro artificio, accertate in base ad elementi oggettivi, ma si estende a tutti i casi in cui il soggetto passivo residente abbia acquistato quote in una società residente da un socio non residente ad un prezzo che, per qualsivoglia ragione, eccede il valore nominale di tali quote sociali, gli effetti di siffatta normativa vanno al di là di quanto necessario per conseguire l’obiettivo di impedire montature di puro artificio, prive di effettività economica e realizzate al solo scopo di usufruire indebitamente di un beneficio fiscale.”

Segnaliamo, oltre a tutto, che nel caso Société de Gestion Industrielle SA (SGI) il governo Belga, per superare l’incompatibilità comunitaria della propria norma interna, ha precisato nel corso dell’udienza che l’onere della prova sull’esistenza di una pratica elusiva oggetto della controversia, incombeva all’amministrazione tributaria nazionale ai sensi della vigente legislazione. Secondo la Corte “ ….Qualora quest’ultima applichi detta normativa, il contribuente sarebbe messo in condizione di produrre elementi relativi alle eventuali ragioni commerciali per le quali tale transazione è stata conclusa. Egli disporrebbe di un termine di un mese, prorogabile, per dimostrare che non si tratta di un beneficio straordinario o senza contropartita, tenuto conto delle circostanze nelle quali è avvenuta tale transazione. Anche se, nonostante tutto, detta amministrazione persistesse nella sua intenzione di effettuare l’accertamento in rettifica e non accettasse gli argomenti del contribuente, quest’ultimo potrebbe contestare tale imposizione fiscale dinanzi ai giudici nazionali.”

E’ egualmente significativo ricordare le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte nel caso Cadbury Schweppes   precisando che la legislazione domestica italiana non prevede nemmeno un motive test

In quella sede, la Corte precisò che:
ove il motive test, quale definito dalla legislazione sulle SEC, si presti ad un’interpretazione che permetta di limitare l’applicazione della tassazione alle costruzioni puramente fittizie, la disciplina del Regno Unito deve considerarsi compatibile con gli artt. 43 CE e 48 CE;
diversamente, occorrerà considerarla contraria agli artt. 43 CE e 48 CE, se i criteri sui quali poggia il test comportino che, quando nessuna delle eccezioni previste dalla stessa legislazione trova applicazione e la volontà di ottenere una diminuzione dell’imposta nel Regno Unito appare tra le ragioni principali della costituzione della SEC, alla società madre residente si applichi la detta legislazione nonostante l’assenza di elementi oggettivi nel senso dell’esistenza di una montatura siffatta.

Segnaliamo che l’amministrazione finanziaria italiana non ha declinato nei suoi documenti di prassi parametri di riferimento oggettivi o eccezioni per vincere la presunzione, richiamandosi genericamente all’elenco contenuto della Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea dell’8 giugno 2010_, di poca o nessuna utilità pratica per il contribuente. 

Per inciso rileviamo che nella sentenza  SIAT, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha censurato una procedura per la quale non essendo sufficiente presentare atti, nonché documenti, giuridicamente validi, occorra indurre ”………. il ragionevole convincimento del funzionario dell’amministrazione tributaria in merito al carattere effettivo e veritiero delle operazioni”.

La Corte nella stessa sentenza ha dichiarato che una norma domestica interna che non consente di determinare previamente e con sufficiente precisione il proprio campo di applicazione e lascia sussistere incertezze quanto alla sua applicabilità, “…….non soddisfa le esigenze della certezza del diritto, il quale esige che le norme giuridiche siano chiare, precise e prevedibili nei loro effetti, in particolare quando esse possano avere conseguenze sfavorevoli per gli individui e le imprese.” In tal guisa una regola che non soddisfa le esigenze del principio. di certezza del diritto non può essere considerata proporzionata e, dunque, è contraria ai principi prefissati dalle norme comunitarie. 

Principi di certezza del diritto, di legittimo affidamento e di diritto a un ricorso giurisdizionale, portano dunque a considerare le controverse disposizioni italiane del tutto sproporzionate secondo i dettami comunitari. I commi 8-bis e 8-ter dell’art. 167 del T.U.I.R. e finiscono per costituire una presunzione assoluta e predeterminata di evasione/elusione fiscale.

5) VERIFICA DELLA SUSSISTENZA DEI REQUISITI DI DIRETTA APPLICABILITA’ 
Benché la materia delle imposte dirette rientri nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario. 
Pertanto, eventuali disposizioni tributarie in conflitto con il T.F.U.E. o da norme derivate devono considerarsi non applicabili.

6) LA NORMA DOMESTICA NEL CONTESTO DEL PIANO DI AZIONE DELLA COMMISSIONE UE
Nel perseguimento del suo Piano d’azione per rafforzare la lotta alla frode fiscale e all'evasione fiscale, lo scorso 28 gennaio 2016 codesta Commissione ha inviato al Parlamento e al Consiglio una Comunicazione  contente le proposte per l’adozione di un pacchetto di misure anti-elusione, tra cui la proposta di una Direttiva recante norme contro le pratiche di elusione fiscale che incidono direttamente sul mercato interno, tra le quali apposite disposizioni sono dedicate alle CFC

Nella Relazione illustrativa, ha particolarmente pregio la precisazione che la “….direttiva ………stabilisce norme giuridicamente vincolanti per consentire agli Stati membri di affrontare efficacemente l’elusione dell’imposta sulle società in modo da preservare la competitività collettiva e rispettare il mercato unico, le libertà sancite dal trattato, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e il diritto dell’Unione in generale.”, con ciò riconoscendo : i) che nessun Stato membro piò violare i principi sanciti dal diritto comunitario; ii) che la proposta della Commissione è basata nel rispetto dei suddetti principi.

Tale assunto è ribadito nel 2° considerando della proposta, assicurando che “..misure  nazionali di attuazione che seguono una linea comune in tutta l’Unione fornirebbero ai contribuenti la certezza giuridica della compatibilità di dette misure con il diritto unionale”.     

Quanto alle specifiche norme sulle CFC, vale premettere che l’azione della Commissione è maggiormente orientata a colpire “..pratiche di trasferimento degli utili, che incidono chiaramente sul funzionamento del mercato interno, soprattutto quando i redditi sono trasferiti dall’UE verso paesi terzi a bassa fiscalità.”  

La proposta di direttiva ha il pregio di segnare un punto di riferimento importante ai fini della presente denuncia, limitando il campo di applicazione (legittimo) delle norme sulle società controllate estere all’interno dell’Unione a situazioni artificiali prive di sostanza economica.  

Stante l’art. 8, paragrafo 2, della proposta, innanzitutto la disciplina CFC non tornerebbe applicabile alle imprese finanziarie che sono fiscalmente residenti in uno Stato membro o in un paese terzo parte contraente dell’accordo SEE o alle loro stabili organizzazioni situate in uno o più Stati membri. Inoltre, gli Stati membri non devono applicare la disciplina  quando un’entità è residente a fini fiscali in uno Stato membro o in un paese terzo parte contraente dell’accordo SEE o nel caso di una stabile organizzazione di un’entità di un paese terzo situata in uno Stato membro, salvo che la costituzione dell’entità sia interamente fittizia o nella misura in cui l’entità realizza, nel corso della sua attività, costruzioni non genuine che sono state poste in essere essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale.  

La linea d’indirizzo di codesta Commissione conforta la scrivente poiché l’assunto di principio è diametralmente l’opposto di quello adottato dal legislatore italiano.

La norma interna italiana, come sopra già indicato, considera comunque “costruzioni artificiose”, le società UE domiciliate in Stati membri (o Stati SEE) con un tax rate inferiore del 50%  rispetto all’Italia e i cui proventi dipendono in misura superiore al 50% dalla gestione di passive income o da servizi, anche finanziari, infragruppo, salvo inversione dell’onere della prova a carico del contribuente. 

Il dettato dell’art.8 paragrafo 2° della proposta, invece, prioritariamente non considera applicabili le disposizioni CFC alle società stabilite nella UE (esentandone comunque le società finanziarie), e non pone nemmeno l’inversione dell’onere della prova a carico del soggetto controllante, pur avversando l’arbitrio all’uso di entità interamente fittizie e contrastando le operazioni non genuine, nel rispetto del diritto comunitario.  Infatti, le norme di cui all’art. 8 e 9 della proposta sono soprattutto volte a contrastare il trasferimento di utili dalla UE vero Paesi terzi a bassa o nulla fiscalità, legittimando in questo caso, norme rafforzate di prevenzione e lotta alle pratiche elusive. 

Appare, dunque, ancor più evidente come le norme domestiche siano in palese contrasto con il diritto comunitario, anche secondo le linee di attività di codesta Commissione. 

7) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE DELLA COMMISSIONE DI STUDIO
Da quanto finora esposto, è fondato parere di questa Commissione di Studio che le disposizioni recate dall’art. 167, commi 8-bis e 8-ter del Testo unico delle imposte sui redditi confliggono con gli articoli 49, 54 del T.F.U.E. e art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione, nonché del principio di proporzionalità sancito dalla Corte di Giustizia, costituendo un’illegittima restrizione alla libertà di stabilimento.

Riteniamo di aver esaurientemente motivato come le norme domestiche, introdotte con finalità antielusiva dal DL 1.7.2009 n. 78, intendono colpire il reddito di specifiche legal entity anche in assenza di ulteriori elementi che giustifichino la fondata esistenza di una frode, evasione o elusione fiscale.  La particolarità delle disposizioni, inoltre, s’incentra, ed è astrattamente collegata, a una presunzione relativa cui deve farsi carico il soggetto controllante italiano, il quale deve dimostrare che la società estera non rappresenta una “costruzione artificiosa” volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale, consentendo agli organi preposti all’accertamento una ampia discrezionalità delle ragioni portate dal contribuente, con il pericolo che questa discrezionalità si traduca in un “libero convincimento” del funzionario preposto al controllo.

A nostro giudizio, il legislatore italiano per rendere conforme ai precetti comunitari la disciplina interna, dovrebbe:
innanzitutto, riformulare il testo della norma eliminando l’automatica imponibilità “forzosa” della filiale UE alle CFC rules domestiche. In tal senso, il primo paragrafo del comma 8-bis dovrebbe prevedere la tassazione delle entità controllate può essere applicata  in presenza di costruzioni di puro artificio;
statuire normativamente che è a carico dell’Amministrazione italiana l’onere di provare se l’impresa UE può essere considerata o meno una costruzione artificiosa. L’efficacia dei controlli fiscali, al fine di evitare che il contribuente possa sottrarsi al proprio obbligo tributario, è assicurata dalla direttiva del Consiglio 2011/16/UE del 15 febbraio 2011, recentemente modificata dalla Direttiva del Consiglio 2015/2376 dell'8 dicembre 2015 , relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette, nella sua vigente versione permette ad uno Stato membro di chiedere alle autorità competenti di un altro Stato membro tutte le informazioni che gli possono essere necessarie ed utili per l'accertamento d'imposta in un altro Stato membro-;
consentire al contribuente che presenti un interpello in via preventiva, il diritto di sottoporre a sindacato giurisdizionale il suo caso nel rispetto dell’art.47 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in caso di risposta negativa da parte dell’amministrazione finanziaria;  
introdurre il diritto a un contradditorio preventivo endoprocedimentale unitamente al diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che l’atto di accertamento sia emanato, in osservanza dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,  fermo restando l’obbligo per l’amministrazione finanziaria di motivare l’atto di accertamento.

Adottando queste misure, verrebbe  garantita  una sostanziale conformità delle CFC rules interne al diritto comunitario, anche in proiezione dell’adozione della specifiche norme contenute nella proposta di Direttiva presenta recentemente da codesta Commissione,  e salvaguardato un rapporto di effettiva parità e leale collaborazione tra l’autorità fiscale e i contribuenti che controllano imprese o società in altro Stato membro.

In conclusione, l’art. 167, commi 8-bis e 8-ter del D.p.r. n. 917/1986, costituisce una restrizione vietata dagli articoli 49 e 54 del T.F.U.E, risolvendosi in una presunzione assoluta e predeterminata di evasione/elusione fiscale di portata generale, ponendo ad esclusivo carico del contribuente l’inversione dell’onere della prova, soggetta ad ampia discrezionalità di giudizio dell'autorità amministrativa, a prescindere da un'effettiva evasione o frode fiscale, ed eccede quanto è necessario per evitare una tale frode o evasione fiscale pregiudicando gli obiettivi perseguiti dal Trattato. 

La scrivente Commissione di Studio auspica che codesta Commissione Europea, nell’ambito dei suoi compiti di vigilanza e di tutela del diritto comunitario, possa presto intraprendere un’adeguata azione nei confronti dello Stato italiano ai fini di un sollecito superamento del segnalato conflitto normativo.