AIDC - Sezione di Milano

Norme di comportamento N.201
Effetti reddituale della remissione del debito per trattamento di fine mandato da parte dell'amministratore


Massima
La remissione del trattamento di fine mandato effettuata alla società dall’amministratore è assimilabile alla percezione dell’indennità solo nel caso in cui la corrispondente rinuncia al credito vantato gli attribuisca un vantaggio economico. In assenza di tale vantaggio, la remissione non comporta in capo all’amministratore il realizzo di alcun reddito imponibile. 

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Il compenso percepito dall’amministratore a titolo di trattamento di fine mandato è qualificato dall’art. 50, comma 1, lett. c) bis del Testo Unico delle Imposte sul Redditi (1)  come reddito assimilato a quello derivante dal lavoro dipendente, fatte salve alcune eccezioni ivi previste (2). L’assoggettamento a tassazione di tale reddito si realizza, in base al principio “di cassa”, nel momento della sua percezione (3). Al contrario, la mancata percezione del compenso non manifesta alcuna capacità contributiva e, di conseguenza, non comporta il manifestarsi di alcun presupposto impositivo, secondo quanto statuito dall’art. 1 del Tuir, in forza del quale “presupposto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6”. La tassazione sarebbe, dunque, in contrasto con il dettame costituzionale (4). Il presupposto impositivo si realizza, invece, quando, pur in assenza dell’incasso monetario, la rinuncia al credito vantato dall’amministratore sia indirettamente collegata a una controprestazione di qualsiasi natura (in forma di beni o servizi differenti dal denaro), ovvero quando il credito stesso sia utilizzato per estinguere obbligazioni facenti capo all’amministratore. In conclusione, si deve affermare che dalla mera remissione della posizione creditoria non può conseguire  una presunzione automatica di incasso dei relativi importi (5), conseguenza che si determina solo nell’ipotesi in cui si realizzi un incremento patrimoniale o reddituale oggettivamente riconoscibile e fiscalmente riconosciuto (6). Muovendo da questo assunto, è possibile esemplificare le soluzioni nelle diverse ipotesi di amministratore che sia non socio ovvero socio, evidenziando le conseguenze reddituali che si generano sui soggetti interessati (7). Si assuma, a tal fine, che la mera remissione del debito dell’amministratore al trattamento di fine mandato intervenga dopo che la società abbia dedotto (8) le quote del trattamento di fine mandato, imputate a conto economico a titolo di accantonamento, senza che si sia prodotto alcun effetto reddituale in capo all’amministratore.

Caso 1: amministratore non socio 
La mera remissione del debito non comporta alcun beneficio in capo all’amministratore non socio e non può, pertanto, essere assunta quale forma di utilizzo o godimento del diritto di credito. Conseguentemente, non si determina alcun effetto reddituale in capo all’amministratore e la società, a fronte del costo precedentemente dedotto, realizza una sopravvenienza attiva imponibile, ai sensi dell’art. 88, comma 1 del Tuir. 

Caso 2 : amministratore socio 
La mera remissione del debito non comporta alcun beneficio per l’amministratore socio e non può, pertanto, essere assunta quale forma di utilizzo o godimento del diritto di credito. La mancata percezione rende l’operazione fiscalmente ininfluente per l’amministratore, ancorché socio, in quanto non gli attribuisce alcun vantaggio economico. Il credito così rinunciato ha un valore fiscale nullo in quanto la fattispecie reddituale sottostante non ha mai concorso a formare la base imponibile del reddito dell’amministratore ix. Ne consegue che, per l’amministratore, la rinuncia del credito non comporta un incremento del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione, disciplinato dall’art. 94, comma 6 del Tuir. Per quanto riguarda la società, che imputa a una posta di patrimonio netto l’ammontare del credito rinunciato dall’amministratore socio, trova applicazione l’art. 88, comma 4-bis del Tuir, con la determinazione di una sopravvenienza attiva imponibile da assoggettare a imposizione mediante una corrispondente variazione in aumento in sede di dichiarazione dei redditi. 
Quanto sopra è conforme alla volontà del legislatore, che ha introdotto il comma 4 bis dell’art. 88 del Tuir proprio al fine di assicurare l’uniformità di trattamento alle diverse ipotesi di rinuncia dei crediti dei soci. Nella relazione illustrativa al decreto n. 147/2017, si legge infatti che attraverso il comma 4 bis “viene riformato il regime fiscale IRES delle rinunce dei crediti da parte dei soci, riconducendolo a sostanziale unità, a prescindere dalla modalità con cui l’operazione viene formalmente svolta, nonché dai principi contabili utilizzati dai soggetti coinvolti” x. L’unico discrimine imposto dal legislatore attiene, perciò, al valore fiscale del credito rimesso e nel caso in cui tale valore fiscale sia nullo, ne consegue il solo realizzo della sopravvenienza attiva per la società che beneficia della rinuncia xi.

 


1. L’art. 50, comma 1, lett. c-bis) del Tuir dispone che sono assimilati ai redditi di lavoro dipendente, le somme e i valori “a qualunque titolo percepiti nel periodo di imposta, in relazione agli uffici di amministratore (...), sempreché gli uffici o le collaborazioni non rientrino nei compiti istituzionali compresi nell’attività di lavoro dipendente di cui all’art. 49, comma 1, concernente redditi di lavoro dipendente, o nell’oggetto dell’arte o professione di cui all’art. 53, comma 1, concernente redditi di lavoro autonomo, esercitate dal contribuente”.

2.  L’ultima parte della norma riportata nella nota precedente esclude l’assimilazione nel caso in cui gli uffici o le collaborazioni rientrino nei compiti istituzionali compresi nell’attività di lavoro dipendente o nell’oggetto dell’arte o professione. La presente norma di comportamento considera unicamente l’ipotesi in cui il trattamento di fine mandato sia da considerare reddito assimilato a quelli di lavoro dipendente.

3.  L’art. 50 del Tuir per individuare il momento impositivo utilizza espressamente la locuzione “percepiti”. La stessa è applicabile non solo ai soggetti Ires, ma anche ai soggetti Irpef.

4.  Contra: Ordinanza Corte di Cassazione n. 1335 del 26 gennaio 2016. Con tale pronuncia per ricondurre a tassazione la rinuncia ad un trattamento di fine mandato da parte di amministratore socio si è affermato che “la rinuncia presuppone, il conseguimento del credito il cui importo, anche se non materialmente incassato, viene comunque "utilizzato", sia pure con atto di disposizione avente natura di rinuncia”. In tal modo, l’ordinanza parrebbe fissare un principio generale, se non fosse smentito da quanto successivamente affermato: “Altrimenti operando, si permetterebbe alla società di beneficiare di accantonamenti fiscalmente dedotti nel corso dei singoli periodi di imposta che non scontano alcuna imposizione fiscale, nonostante producano  l'effetto  ultimo di incrementare  il  costo  della partecipazione e perciò di generare reddito, che finirebbe per rimanere esente da imposizione”, da ciò intuendosi come la reale motivazione dell’ordinanza sia stata quella di evitare ipotetici salti d’imposta. È da sottolineare che la fattispecie esaminata dall’Ordinanza all’epoca dei fatti era ancora regolamentata dalla precedente versione dell’art. 88, comma 4-bis del Tuir che prevedeva in ogni caso l’irrilevanza reddituale in capo alla società delle rinunce ai propri crediti da parte dei soci. 

5.  Ai sensi dell’art. 1236 del codice civile la remissione del debito è l’atto con il quale il creditore rinunzia volontariamente al proprio credito. Con la remissione del debito, il creditore libera il debitore dalla obbligazione. Trattasi di un modo di estinzione non satisfattivo e da qualificare come negozio unilaterale recettizio. Nonostante la differenze letterali la rinuncia richiamata dall’art. 88, comma 4, bis del Tuir, è fattispecie da ricondurre alla remissione del debito. 

6.  Posizione contraria è stata avanzata, senza però offrire convincenti motivazioni, anche dall’amministrazione finanziaria nella circolare n. 73/E del 27 maggio 1994, nella quale si è affermato che “la rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l’avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta di imposta”.

7.  L’analisi congiunta della posizione reddituale del socio e della società appare opportuna considerando la tesi dell’ordinanza sopra richiamata sub viii la quale pare meramente basata sull’esigenza di evitare ipotetici salti d’imposta. 

8. Nell’ipotesi in esame si presume siano state rispettate le condizioni previste dall’art. 105 del Tuir al fine di dedurre gli accantonamenti al fondo trattamento di fine mandato in base al principio di competenza (cfr. Norma di comportamento Aidc n° 180).
ix Il semplice fatto che la remissione al credito comporti un arricchimento della società e, di conseguenza, indirettamente anche della partecipazione del socio/amministratore, è ininfluente al tal fine della quantificazione del valore fiscale del credito rinunciato, perché lo stesso processo di arricchimento indiretto del socio si verifica per qualsiasi sopravvenienza attiva goduta dalla società. La valorizzazione della quota non è, invero, di per sé elemento assimilabile all’arricchimento (fiscalmente rilevante), giacché questo interverrà solo nel momento eventuale e successivo in cui il maggior valore della partecipazione dovesse essere effettivamente realizzato e conseguito.
x Cfr. Relazione Illustrativa D. Lgs. n. 471/2017.
xi In forza di tanto deve perciò essere disatteso il contenuto della Risoluzione 124/E del 13 ottobre 2017 dell’Agenzia delle Entrate, anche perché motivata sulla scorta di richiami giurisprudenziali antecedenti alla modifica normativa e, dunque, non più conferenti alla fattispecie.